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Storie di omosessuali discriminati

A Domenica In sfilano lesbiche, omosessuali, bisessuali e transgender vari. Un paio di mesi fa, addirittura, una donna raccontava in tv che dopo aver avuto 6 (sei) figli si era innamorata di un’altra donna, la quale poi aveva cambiato sesso ed era andato (dovremmo riscrivere anche la grammatica, se nel bel mezzo della frase il soggetto da femminile diventa maschile) a vivere con lei. A Sanremo abbiamo assistito alla struggente sviolinata di una coppia gay in procinto di sposarsi (a New York perché noi italiani siamo “arretrati”), senza contare la predica della Littizzetto sull’amore omosessuale. Durante Le Iene è andato in onda un servizio sul “poliamore”: due uomini e una donna che – parole loro – sono una “famiglia”. Ricordo addirittura un paio di campagne tv contro l’omofobia, promosse dal “Dipartimento per le Pari Opportunità” (una quando c’era la “destra” al governo, l’altra durante il recente “intermezzo tecnico” di Monti). L’opinione della stragrande maggioranza dei giornali, poi, la conosciamo: basta leggere gli esultanti articoli sulla recente approvazione della legge francese che dà il via libera alle unioni degli invertiti, con tanto di diritto di adozione.
Eppure esiste tutta una categoria di omosessuali che non fa notizia, per la quale non sembra valere la quasi venerazione dovuta agli esponenti del gaio mondo da parte dei media.
Uomini e donne che non vengono invitati nei talk-show e non trovano spazio sui giornali, privando così il pubblico dibattito della loro voce.
Persone la cui opinione, probabilmente, disturba la vulgata del pensiero unico e politicamente corretto oggi di moda.
È il caso ad esempio di Nathalie de Williencourt, portavoce di Homovox, un’associazione di cittadini francesi che raccoglie gli omosessuali d’oltralpe che si oppongono al progetto di legge “matrimonio per tutti” imposto dal presidente Hollande. Silenziata per le sue affermazioni profondamente sovversive – addirittura si è permessa di dichiarare che «la coppia omosessuale è diversa da quella eterosessuale». Rincarando la dose parlando dell’adozione da parte di coppie gay, ha spiegato di ritenere «che i bambini abbiano il diritto ad avere un padre e una madre, possibilmente i genitori biologici, che si amino. Un figlio nasce dal frutto dell’amore di suo padre e di sua madre e ha il diritto di conoscerli. Se le coppie omosessuali adottano dei bambini che sono già privati dei loro genitori biologici, allora li si priva di un padre e di una madre una seconda volta».
Bestemmie inaudite, difficili da disinnescare con la solita lagna sui gay “vittime della società oscurantista e retrograda”, visto che è proprio uno di loro ad esprimersi così.
Dopo gli “ebrei antisemiti” (per essere classificati così basta da giudei criticare una qualsiasi delle politiche razziste di Israele), la propaganda ha l’onore di presentarvi “i gay omofobi” – colpevoli di ricordare verità lapalissiane.
Come questa: «La pace si costruisce dentro la famiglia e per avere pace nella famiglia bisogna donare ai bambini il quadro più naturale e che più infonde sicurezza per crescere e diventare grandi. Cioè la composizione classica uomo-donna». Provate a immaginare cosa sarebbe avvenuto se una frase del genere, al posto della de Williencourt, l’avesse pronunciata il Papa.
In realtà non è difficile figurarsi la canea mediatica che ne sarebbe seguita, poiché è proprio ciò che effettivamente accadde qualche mese fa a proposito del discorso che Benedetto XVI tenne in occasione della Giornata Mondiale della Pace.
Ferita nell’amor proprio, la lobby LGBT non esitò a scatenare tutta la sua furia.
Il solito mantra, ripetuto fino allo sfinimento su tutti i giornali, secondo cui «il Papa alimenta l’odio contro i gay», «la gerontocrazia maschilista vaticana dà nuova linfa a chi si rende responsabile della violenza ai danni degli omosessuali», «la Chiesa fomenta l’omofobia» eccetera eccetera.
Se invece lo afferma una lesbica, silenzio assoluto. Si capisce. Non si può certo accusarla di essere razzista, omofoba, maschilista, di predicare odio e violenza. Qualcuno potrebbe mangiare la foglia. Allora si fa in modo che queste voci non giungano alle orecchie del grande pubblico.
Come quella di Jean Pier, documentarista per la televisione, che in un video sul sito di Homovox ha detto: «Io vivo in Provenza e lavoro a Parigi. So che pochissimi omosessuali desiderano sposarsi al di là dei PACS, che già hanno. In realtà il numero di persone unite tramite PACS in Francia, parlo di coppie dello stesso sesso, è minimo. Pertanto, per chi è questa legge? Se è solo per le 5.000 persone che vivono nel quartiere di Le Marrais (zona di Parigi dove è più attiva la comunità LGBT, ndr), allora è solo un atto militante»
Posizione sostenuta anche oltremanica dalla famosa attivista lesbica Julie Bindel, firma del giornale inglese The Guardian, che ha parlato di «isteria pro-matrimonio», denunciando che è «solo una parte non maggioritaria del mondo omosessuale» ad essere «davvero convinta che sia importante estendere i diritti del matrimonio a coppie dello stesso sesso e che solo un’infima minoranza (uno su quattro) sarebbe pronta a sposare il suo/la sua partner se la legge lo consentisse».
Non si creda che si tratti di posizioni isolate; semplicemente la minoranza rumorosa della lobby LBGT non gradisce questi disturbatori, visto il grande impegno profuso nell’opera di normalizzazione dell’inversione sessuale.
Ma, a parte i gay e le lesbiche schierati contro gli pseudo-matrimoni ed in difesa del diritto dei bambini ad avere una famiglia normale, se c’è una questione che la suddetta lobby vede proprio come il fumo negli occhi è quella sollevata dai cosiddetti omosessuali egodistonici.
Omosessuali, cioè, che non vogliono saperne di accettare la propria omosessualità; che, nonostante le rassicurazioni di sedicenti esperti, proprio non riescono a sopportare l’attrazione che provano verso individui dello stesso sesso e quindi provano, spesso con successo, a modificare le loro tendenze sessuali e riappropriarsi della propria identità più profonda.
Giova in proposito riepilogare brevemente la storia della de-patologizzazione dell’omosessualità. I tre grandi pionieri della psichiatria – Freud, Jung e Adler – consideravano infatti l’omosessualità una vera e propria patologia. Oggi, invece, essa non è più contemplata dai manuali psichiatrici sulle malattie mentali. Ci si aspetterebbe che tale mutamento radicale sia da attribuirsi al progredire della ricerca scientifica. In realtà, nessun tipo di studio psicologico o sociologico giustifica questo cambiamento: i motivi sono esclusivamente ideologici.
La cancellazione dal Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – DSM), avvenne infatti nel 1973: in piena epoca di “liberazione sessuale”, in un clima “rivoluzionario” nel quale qualunque trasgressione era incoraggiata, essendole attribuito il significato di ribellione all’autorità, teorizzata sempre come repressiva ed ingiusta.
Tale opera di “normalizzazione” dell’inversione sessuale ha sortito l’effetto di inibire gli studiosi, quasi diffidandoli dall’indagare «le cause psicodinamiche dell’omosessualità» e giungere, quindi, a «suggerire terapie efficaci». Con il risultato di discriminare quanti, invece, vivono con disagio questa condizione e vorrebbero, legittimamente, essere supportati nella loro battaglia personale.
Ma le loro richieste di aiuto sono quasi sempre ignorate. Peggio ancora, tali pazienti vengono addirittura scoraggiati dagli stessi specialisti cui si rivolgono. “Non c’è nulla di male”, “bisogna accettare la situazione”, “va superato il senso di colpa”: questo il massimo del supporto che possono sperare di ottenere.
E, colmo dell’ipocrisia, anche l’omosessualità ego-distonica (sopravvissuta fino alla revisione del 1990) è stata depennata dal DSM, sostituita da un generico riferimento indiretto relegato nella categoria degli «Altri disordini sessuali non altrimenti specificati», dove si può leggere di un «persistente ed intenso disagio collegato al proprio orientamento sessuale», senza alcun riferimento all’omosessualità.
Come se il «persistente e forte disagio» possa essere riferito anche all’eterosessualità.
Peccato che, nell’intera storia della psichiatria, mai è capitato che un eterosessuale sia entrato in cura per l’angoscia di essere tale, desiderando essere omosessuale.
Ma questo, in fondo, è solo un dettaglio.
Antonio Schiavone