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Parole come pietre
Negli ultimi tempi si è fatta una gran caciara intorno alla vicenda di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana che i nostri liberi organi di informazione ci hanno raccontato essere stata condannata alla lapidazione per adulterio. Immagino che pure voi come me siate stati vittime della grande campagna mediatica imbastita per fermare la sua condanna: petizioni a non finire, femministe isteriche a sbraitare a tempo pieno, capi di stato che – evidentemente infastiditi dalla verità nei confronti delle proprie consorti – ne hanno fatto una questione personale.
Non serve certo un genio per comprendere le reali motivazioni di cotanto spiegamento di forze: dipingere l’Iran, e il mondo islamico in generale, nel modo peggiore possibile. Descriverlo come un paese nel quale regna la barbarie e dove un regime brutale ed ingiusto, in nome di una religione tribale, opprime le donne e ammazza a pietrate le coraggiose che osano ribellarsi.
Peccato che la realtà sia leggermente differente.
Prima di tutto, la decisione su questo tipo di condanne a morte non spetta ad alcuna autorità governativa o religiosa, bensì dipende dai singoli tribunali (quello di Tabriz, nel caso di Sakineh). Poi va detto che la lapidazione, a dispetto di quanto la grancassa mediatica faccia intendere, costituisce una pratica ormai quasi del tutto in disuso in Iran, persistendo solo in alcune collettività rurali periferiche contro il volere del governo centrale, che vorrebbe definitivamente abolirla per ovvie questioni di ordine pubblico, oltre che di immagine. Il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo parla di 5 uomini e 1 donna lapidati tra il 2001 ed il 2009 in quel di Teheran.
Inoltre, se ci riferiamo specificamente alla vicenda di Sakineh, una ricerca appena un pelo più approfondita rivela qualche interessante elemento sul quale le sirene della propaganda stranamente (chissà come mai) tacciono. Innanzitutto si scopre che il defunto marito di Sakineh è stato brutalmente assassinato dagli amanti (da notare il plurale) della donna, che infatti in origine era stata arrestata con l’accusa di concorso in omicidio, in seguito poi caduta poiché non formalizzata dai figli. Uno dei giudici che si sono occupati del caso, Malek Ejdar Sharifi, ha dichiarato circa la vicenda: “Non possiamo rendere noti i dettagli dei suoi crimini [di Sakineh, ndr] per considerazioni di ordine morale ed umano. Se il modo in cui suo marito è stato assassinato fosse reso pubblico, la brutalità e la follia di questa donna verrebbero messe a nudo di fronte all’opinione pubblica. Il suo contributo all’omicidio è stato così crudele e agghiacciante che molti criminologi ritengono che sarebbe stato molto meglio se lei si fosse limitata a decapitare il marito”.
A questo punto mi è d’obbligo citare Gianluca Freda, blogger indipendente, grazie al quale sono venuto a conoscenza di parecchie delle informazioni sopra riportate, che termina così la ricostruzione della vicenda: “Solo dopo essersi vista preclusa la possibilità di perseguire la donna per omicidio, a causa del “perdono” dei figli, i giudici hanno deciso di giocare la discutibile carta dell’accusa di adulterio. Scelta indubbiamente deprecabile sul piano procedurale, ma dal punto di vista culturale ed etico le cose stanno molto diversamente da quello che centinaia di siti internet, per non parlare della stampa, danno ad intendere al lettore credulone”.
Antonio Schiavone
L’Iran ha posto fin dal 2002 una moratoria sulla pena capitale inflitta per lapidazione, e – caso strano – è precisamente dal 2002 che tutte le notizie di lapidazioni avvenute nel paese musulmano provengono da fonti occidentali, ripetutamente smentite da Teheran. Nel 2008 è stato quindi presentato al Parlamento iraniano un progetto di legge per la definitiva soppressione, anche dal punto di vista formale, di tale pratica.
Paesi invece in cui la lapidazione è effettivamente praticata sono Afghanistan e Arabia Saudita (che regolarmente dispone pubbliche decapitazioni per le adultere), che però sembrano ignorati dai grandi media occidentali. I più maligni insinuano che il motivo sia da ricercare negli stretti rapporti che intercorrono tra questi due paesi e gli Stati Uniti: non essendoci motivo per screditare regimi e governi graditi a Washington e Tel Aviv, evidentemente i diritti delle donne possono essere accantonati.
E su questo assordante silenzio farebbero bene a riflettere i progressisti a corrente alternata ed i pacifisti a geometria variabile che affollano le strade di Parigi e di Roma, cadendo in pieno nella propaganda dei soliti pupari che perseguono l’obiettivo di destabilizzare il paese iraniano.
Non è la prima volta che l’Iran viene fatto oggetto di aperte campagne di demonizzazione con lo scopo di destabilizzare l’area. Dopo le scorse elezioni – tutto sommato regolari – che riconfermarono Ahmadinejad, un mese di proteste e di rivolte insanguinò il paese: la cosiddetta Rivoluzione Verde, così subito ribattezzata dagli uffici di marketing. Essenzialmente uno scontro interno alla classe degli ayatollah, fomentato però sapientemente da miriadi di «fondazioni» e ong occidentali (Ned, Freedom House, USAid, American Enterprise Institute, Council of Foreign Relations, Friedrich Naumann Foundation, GfbV), come sempre bravissime nel creare lo stato d’animo collettivo per le esplosioni di piazza.
Basti pensare che la campagna Twitter contro Ahmadinejad proveniva direttamente dal Mossad israeliano. La più famosa immagine della rivolta di Teheran è quella di Neda Salehi Agha-Soltan: celebrata immediatamente come l’eroina, la dimostrante per la libertà uccisa dal potere. L’immagine perfetta da tramutare in simbolo da imprimere nell’immaginario collettivo per diventare emblema della “crudeltà” del regime nell’opinione pubblica.