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Torniamo all’asilo
La mia modesta proposta riguardo gli asili nido (suggerivo di versare i soldi spesi dai Comuni direttamente alle madri, invece di utilizzarli per foraggiare l’assistenzialismo verso maestri e maestrine varie), ha suscitato qualche piccata reazione in un paio di nostre lettrici.
Antonella, per esempio, ha scritto:
Approfittando dell’occasione per pregarla la prossima volta di scrivere in italiano invece che nella pseudo-lingua degli sms, confesso che dopo avere interpretato il suo commento lo sconforto è stato totale. Perché non so cosa rispondere, visto che non colgo alcun pensiero compiutamente espresso – eccezion fatta per un paio di insulti gratuiti ed un non meglio precisato invito a togliermi dagli occhi “la benda del nonno”. Riferimento, quest’ultimo, con il quale voleva alludere – credo – ad un mio presunto adagiarmi su posizioni giudicate vecchie e superate dal conformismo oggi imperante. Ma poiché non mi va di perdere il mio tempo rispondendo a delle critiche che devo praticamente inventarmi estrapolandole da un grugnito, la invito a formulare meglio le sue osservazioni (magari inserendole all’interno di un discorso articolato e coerente) in maniera tale da darmi modo di replicare qualora ne fosse il caso.
Maria forse chiarisce meglio il concetto che ha provato ad esprimere con scarsi risultati la lettrice precedente:
Innanzitutto la ringrazio pubblicamente per avermi dato occasione di chiarire meglio ciò che intendevo. Evidentemente non mi sono spiegato bene: non comprendo infatti in che modo abbia dato l’impressione di sostenere che prima era meglio. Soprattutto in quanto, per evidenti ragioni anagrafiche, non possiedo elementi a sufficienza per esprimere un giudizio seppur parziale. L’unica famiglia “patriarcale” di cui ho avuto forse esperienza è quella di mio nonno. Ma a parte il rispetto “assoluto” che mio padre ed i suoi fratelli e sorelle gli portavano (aspetto che giudico sicuramente positivo se rapportato a certi episodi, di cui sono stato testimone, avvenuti nel nuovo modello familiare nel quale si fatica non poco a scorgere la presenza di una qualsivoglia autorità), non ricordo molto altro. Magari Maria è più ferrata di me sull’argomento: mi scriva, sarò lieto di apprendere la sua esperienza in merito.
Riguardo la cosiddetta parità, non me ne voglia, ma è caduta in pieno nel grande inganno del movimento femminista che – giova ricordarlo – tutto fu meno che un movimento spontaneo.
Come ogni ideologia, nacque dalle menti di pochi che a tavolino decisero di ridefinire la posizione della donna nella società.
Come ogni ideologia, conteneva in sé elementi di verità. E come ogni movimento dato alla luce in certi ambienti, il suo vero scopo era ben diverso da quello propagandato pubblicamente.
Per non farla troppo lunga, basta osservare le grandi conquiste che ne sono scaturite: prometteva dignità (accendete la tv su un canale a caso o sfogliate una qualsiasi rivista e rendetevi conto di come la dignità abbondi – soprattutto nelle scollature) e ha ottenuto il disfacimento della famiglia; assicurava la libertà dalla sottomissione verso il marito e l’ha sostituita con la schiavitù al datore di lavoro. Una religione, in cui si fa atto di fede nella dogmatica del capitalismo british: una donna è liberata quando, oltre ad allevare un figlio, lavora. Ed è veramente liberata quando non considera il suo lavoro una dura necessità, ma una carriera entusiasmante.
Per concludere, non ho mai scritto né era mia intenzione suggerire che tutti i ragazzi alcolizzati o drogati sono figli di lavoratori modesti. Perché – sono d’accordo – è una balla colossale. Il consumo di stupefacenti, la ricerca esasperata dell’attimo che vale una vita, la volontà di autodistruzione sono tutti sintomi di un malessere profondo che sarebbe ridicolo e tremendamente sbagliato spiegare esclusivamente in questa semplicistica maniera.
Mi scrive poi Rosa:
A tal proposito, vorrei tranquillizzarla e scusarmi con lei se ho dato l’impressione di voler prendere in giro quante si barcamenano tra lavoro e famiglia, costrette a mille impegni (e spesso umiliazioni) per cercare di aiutare una famiglia sempre più in crisi. L’ironia era intesa a sottolineare come, dietro la falsa promessa di libertà, le donne si siano fatte ammaliare dal mito della emancipazione, parola apparentemente innocua. Con i risultati di cui sopra. Reclamavano la loro diversità e individualità, il proprio diritto all’autodeterminazione e non si sono rese conte della tremenda omologazione nella quale volontariamente si sono gettate.
La pubblicità vi vuole tutte in carriera, meglio se belle e sexy, e arriviste. Non c’è bisogno che vi spieghi qual è il modello proposto, certo lo capite da voi.
La strategia, va riconosciuto, è stata vincente. Tramite l’impoverimento generalizzato (obiettivo ottenuto grazie alla riduzione dei salari e all’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi) ha creato le condizioni di necessità. Facendo leva sul naturale desiderio di indipendenza, e attraverso l’imposizione di pseudo-valori come il successo, ha poi ammantato di rispettabilità quello che è in realtà è il semplice tentativo di conseguire i propri fini egoistici, liberati dal peso di qualsivoglia rimorso.
Non credo sia necessario specificare che si tratta di un discorso che riguarda entrambi i generi. Solo che quelle che ci hanno perduto di più – vi prego di rendervene conto – siete proprio voi donne.
A voi era demandato il compito più importante: l’educazione del bambino nei suoi primissimi anni di vita. Un compito che solo voi eravate (siete) in grado di svolgere, non di certo noi uomini goffi e spesso inopportuni, cui toccavano altre incombenze. Siete voi che la natura ha – a giusta ragione – scelto. Cosa c’è di più naturale dell’istinto materno? Una vocazione che – potete raccontarvi tutte le stronzate femministe del mondo – avvertite, sentite, provate nel vostro io più profondo. Noi maschi non lo comprendiamo neppure questo stupendo, genuino ed immediato rapporto che vi lega al vostro piccolo: possiamo solo intuirlo. Fatto di impulsi contrastanti, non ci accorgiamo di quanto sia difficile per voi fare fronte a questo tremendo impegno denso di responsabilità, pur essendo le uniche a potervici cimentare con successo.
Non disdegnate questo dono.
Devo un’ultima risposta a Rosa (il diverso tono del commento mi fa ritenere che non sia la stessa Rosa di prima), che chiosa:
Grazie per i complimenti, non meritati, che mi elargisce. Ha detto bene, par condicio – ossia parità di condizioni: pessime. Non certo perché mi ritenga migliore, anzi: sono solo uno scribacchino che osserva e mette per iscritto le sue osservazioni della realtà, con molti limiti e poco talento. Ma unicamente perché testate del genere fungono esclusivamente da cassa mediatica per i luoghi comuni del conformismo di ferro oggi vigente. Traditori del concetto stesso di giornalismo e di informazione.
Non faccio fatica a crederle quando ammette le difficoltà dell’essere moglie, madre, studentessa e lavoratrice: posso soltanto augurarle il meglio (ho la ragionevole sensazione che sappia dare il giusto ordine di importanza alle cose).
Dice di leggere disfattismo e idiosincrasia, e pur riluttante devo darle ragione. Sono portato a pensare che ci attendano tempi bui, e nell’immediato non vedo ancore di salvezza cui aggrapparsi. Sono però consapevole che è proprio nelle difficoltà che ci si mette alla prova e si scoprono in noi energie e risorse che neppure sapevamo di avere.
Possiamo solo sperare di essere all’altezza.
Antonio Schiavone