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L’irriducibile complessità dell’essere
Darwin – poverino – non conosceva il DNA. Al tempo in cui scrisse L’origine delle specie, l’immensa complessità della cellula era del tutto ignota. Il microscopio elettronico, necessario per osservare il fantastico mondo in miniatura della vita, fu inventato, infatti, qualche decennio dopo la dipartita del naturalista britannico. E fu solo nel 1958, a seguito di anni di lavoro, che il biochimico John C. Kendrew riuscì a determinare, attraverso la cristallografia a raggi X, la struttura dettagliata di una proteina, la mioglobina.
Cinque anni prima, nel 1953, James Watson e Francis Crick, sempre con l’ausilio dei raggi X, avevano presentato, sulla rivista Nature, il primo schema accurato della struttura del DNA, ovvero il modello a doppia elica. L’avanzare della tecnologia e la messa a punto di nuove tecniche sempre più sofisticate (come ad esempio la risonanza magnetica nucleare, principio alla base dell’omonimo esame diagnostico) hanno permesso di rivelare, a livello molecolare, un’eleganza ed una complessità dei sistemi biologici che Darwin e gli studiosi a lui contemporanei non immaginavano neppure.
La scienza del XIX secolo non aveva idea di come funzionasse il meccanismo della vista, quello del sistema immunitario o del movimento, ma la moderna biochimica ha indagato a fondo sulle molecole che permettono queste ed altre funzioni. Mettendo alle strette la teoria evoluzionista, che nel frattempo aveva già dovuto essere rivista in alcune parti rispetto a quella originariamente proposta da Darwin.
«La teoria darwiniana dell’evoluzione – se mai una ve ne fu – è morta giovane, all’inizio del ‘900, quando Hugo De Vries scoprì la mutazione, August Weismann formulò la teoria della linea germinale e William Bateson fondò la genetica, sui princìpi di un Mendel appena riscoperto. Centrale nel pensiero di Charles Darwin era l’idea dell’eredità dei caratteri acquisiti dall’organismo (pangenesi), che De Vries superava, Weismann escludeva e Mendel evitava. Del meccanismo darwiniano rimaneva, per il secolo a venire, solo la selezione naturale».
Così riassume la storia della attuale teoria dell’evoluzione (detta neo-darwinismo o sintesi evoluzionista moderna) lo scrittore e saggista Giuseppe Sermonti, ex professore di genetica, nella prefazione al libro La disfatta evoluzionista di Maurizio Blondet. In pratica, il neo-darwinismo nacque dal tentativo di “salvare il salvabile” della teoria di Darwin, forzando in chiave evoluzionistica tutte le risultanze delle varie branche della biologia, come la genetica, la sistematica, la paleontologia, l’anatomia comparata e l’embriologia. Quanto all’effettivo raggiungimento dell’obiettivo, sorvoliamo (molto ci sarebbe da dire) sulle miriadi di contraddizioni della dottrina finale così concepita (fossili di transizione assenti, embrioni dissimili, nessun caso osservato di speciazione, eccetera eccetera).
La teoria darwiniana dell’evoluzione – se mai una ve ne fu – è morta giovane, all’inizio del ‘900, quando Hugo De Vries scoprì la mutazione, August Weismann formulò la teoria della linea germinale e William Bateson fondò la genetica, sui princìpi di un Mendel appena riscoperto. Centrale nel pensiero di Charles Darwin era l’idea dell’eredità dei caratteri acquisiti dall’organismo (pangenesi), che De Vries superava, Weismann escludeva e Mendel evitava. Del meccanismo darwiniano rimaneva, per il secolo a venire, solo la selezione naturale
Giuseppe Sermonti, professore di geneticaAd ogni modo, comunque, «una branca della scienza», scrive il biochimico Michael Behe, «non fu invitata agli incontri, e per una buona ragione: non esisteva ancora. La moderna biochimica vide la luce solo dopo il lancio ufficiale del neo-darwinismo». E poiché «le discipline che fanno parte della sintesi evoluzionista sono tutte non molecolari», affinché «la teoria darwiniana possa essere vera, deve essere in grado di spiegare la struttura molecolare della vita» alla luce dei progressi effettuati negli ultimi decenni. E secondo il professore «non è in grado di farlo».
Quello che Behe osserva nei suoi studi, dice, sono «macchine: macchine composte di molecole». Macchine, si badi bene, ossia sistemi o apparati progettati. Ne L’origine delle specie Darwin aveva ammesso: «Se si potesse dimostrare l’esistenza di un qualsiasi organo complesso che non si sia potuto formare attraverso modificazioni numerose, successive, lievi, la mia teoria dovrebbe assolutamente cadere». Nel suo libro, il biochimico americano scrive: «Che genere di sistema biologico non potrebbe essersi formato attraverso “modificazioni numerose, successive, lievi”? Tanto per cominciare, un sistema che sia irriducibilmente complesso. Per irriducibilmente complesso intendo un singolo sistema composto da diverse e ben assortite parti interagenti, che contribuiscono alla funzione basilare, laddove la rimozione di una qualunque delle parti causi l’effettiva cessazione del funzionamento del sistema».
Per spiegare il concetto, Behe ricorre all’esempio di una trappola per topi.
Una comune trappola per topi, semplicissima, composta di soli cinque pezzi: una tavoletta di legno, sulla quale sono fissati gli altri componenti; un martelletto di metallo che schiaccia il topolino; una molla collegata alla base e al martelletto; un gancio sensibile sul quale è posta l’esca ed una barra metallica collegata al gancio, che trattiene il martelletto quando la trappola è carica. Nella sua semplicità, afferma Behe, la trappola per topi è irriducibilmente complessa: se manca uno solo dei pezzi, non funzionerà più. Non è che funzionerà in maniera meno efficiente; non funzionerà per nulla.
Altro che lento accumulo di mutazioni, come preteso dall’evoluzionismo: o ci sono i pezzi tutti assieme nello stesso momento e assemblati correttamente, oppure la trappola per topi inevitabilmente non è.
Il meccanismo darwiniano di mutazione e selezione può spiegare al massimo una complessità cumulativa, come sottolineato dal matematico e filosofo William Dembski, ossia un processo graduale di miglioramento durante il quale, però, non si riscontri mai una completa perdita di funzionalità. Tale meccanismo progressivo risulta letteralmente incapace di dare conto della complessità irriducibile, in quanto «qualunque precursore di un sistema irriducibilmente complesso è, per definizione, non funzionale». E «la selezione naturale può agire solo su sistemi che siano già operanti».
Per fare un paragone, da una fabbrica di biciclette non si vedrà mai saltar fuori una motocicletta!
Se ogni cambiamento – come pretende la narrativa darwiniana – deve sottostare ai vincoli di essere soltanto una lieve modificazione, una duplicazione o riorganizzazione di un componente preesistente e contemporaneamente rappresentare un miglioramento tale da apportare un vantaggio competitivo, il divario tra una moto e una bici è semplicemente incolmabile senza una intenzionale e intelligente progettazione. Una serie di fortunate coincidenze potrebbe metterci sulla strada giusta: per errore il sedile potrebbe essere reso più confortevole e le ruote più grandi, riscuotendo successo tra gli acquirenti e spingendo la fabbrica a riorganizzarsi in maniera tale da fare di quella mutazione una caratteristica permanente. Ma una motocicletta dipende da una fonte di carburante, e una bicicletta non ha nulla che possa essere leggermente modificato per diventare un serbatoio per la benzina. Figuriamoci per la costruzione del motore. Anche se nella fabbrica, non si sa come, si materializzasse il motore di una falciatrice, questo dovrebbe sempre essere fissato alla bici e collegato nel modo giusto alla catena. Quale sarebbe, altrimenti, il vantaggio competitivo di una bici con un motore senza un serbatoio per il carburante o montato in maniera tale da non trasmettere energia alle ruote?
La moderna biochimica,
svelando la stupefacente complessità
delle strutture organiche sub-cellulari,
assesta colpi su colpi al già barcollante edificio
del paradigma evoluzionistico
sempre più imbrigliato nelle proprie contraddizioni
Per quanto riguarda i meccanismi biologici, nulla vieta sul piano logico di procedere allo stesso modo, visto che nei decenni passati la moderna biochimica ha svelato tutti o quasi i componenti di un discreto numero di sistemi biochimici.
La domanda, allora, è se gli esseri viventi presentino delle caratteristiche irriducibilmente complesse. Se la risposta è sì, allora pongono una sfida al darwinismo: la selezione naturale non può assemblare parti aventi lo scopo di realizzare funzioni future; può solo preservare delle caratteristiche già dotate di funzioni.
La vita esibisce ovunque macchine con simili caratteristiche, costituite da proteine e molecole anziché ferro, legno e formaggio; ma dotate della stessa complessità irriducibile.
Per dirla con le parole usate da Maurizio Blondet nel già citato La disfatta evoluzionista, «un esempio classico è quello dell’occhio. Quando un fotone colpisce un tessuto pigmentato sensibile alla luce (la retina), è solo il primo passo: la produzione del segnale nel nervo ottico conseguente all’azione del protone richiede un lungo e complesso processo biochimico a più stadi, e un parimenti complesso processo di recupero della condizione iniziale della retina». In pratica quando la luce colpisce la retina, viene assorbita da una molecola che altera una proteina unita ad essa, la quale dà il via a quella che i biochimici chiamano “sequenza a cascata”, una serie di reazioni molecolari precisamente integrate e calibrate, che nel caso specifico provoca la trasmissione di un impulso nervoso al cervello. Se una molecola della sequenza è mancante o difettosa, il risultato non è un difetto alla vista, ma la cecità: nessun impulso viene trasmesso.
Un altro esempio di Behe, citato anche da Jonathan Wells, ricercatore in biologia molecolare, nel suo libro Le balle di Darwin, è costituito dal flagello batterico (nello schema in figura), struttura cellulare adoperata per muoversi da alcuni batteri (come l’Helicobacter pylori nell’immagine all’inizio di questo articolo).
«Il flagello batterico è un lungo filamento simile a un capello. Alla base di ogni flagello c’è un motore che può girare migliaia di volte al minuto e invertire direzione di marcia di un quarto di giro. L’albero motore è attaccato a un rotore che gira all’interno di uno statore, e l’intero assemblaggio è ancorato nella parete cellulare da vari passanti. Il filamento stesso è attaccato all’albero motore da un gancio che funziona come giunto universale, in modo che il flagello possa attorcigliarsi quando gira».
Negli ultimi decenni i ricercatori hanno identificato quasi tutti i prodotti genetici (le proteine) richiesti per l’assemblaggio e l’operatività del flagello. Basta che ne venga a mancare uno per far sì che questa incredibile macchina molecolare cessi del tutto di funzionare. La letteratura specialistica sul flagello batterico è assai ricca, il che non sorprende affatto, vista la straordinarietà di questo affascinante sistema biochimico. Sono state individuate tubulina, dineina, nexina e diverse altre decine di proteine: una complessità neppure paragonabile a quella della nostra trappola per topi, per dirne una. E tutto questo in una struttura microscopica, invisibile a occhio nudo, nella massa di un batterio grande pochi micron! Batteri che, secondo i darwinisti, sarebbero una delle forme di vita più semplici e primitive: constatiamo invece l’incredibile sofisticatezza di tali apparati miniaturizzati.
Quello che è interessante notare, comunque, è che tra le migliaia di articoli scientifici pubblicati sull’argomento, praticamente nessuno tenta di spiegare l’origine e lo sviluppo del flagello in termini evolutivi, senza andare al di là di qualche mera supposizione priva di qualsiasi dettaglio quantitativo. Visto che viene ripetuto a ogni piè sospinto e perfino insegnato a scuola che la moderna teoria dell’evoluzione è alla base della biologia moderna, ci si aspetterebbe quanto meno una maggiore prolissità. Magari qualche dettaglio potrebbe risultare più difficile da spiegare di altri, ma nel complesso ci si attenderebbe che la scienza avesse un’idea abbastanza precisa del modo in cui il flagello si è evoluto. Invece, l’unico risultato di decenni di ricerche è costituito da qualche storiella speculativa fine a se stessa.
«La scienza comincia sempre con speculazioni e congetture», scrive giustamente Behe, «ma il darwinismo, di solito, ci finisce anche».
Tra gli altri esempi di complessità irriducibile, è possibile citare la sequenza a cascata della coagulazione del sangue, il trasporto vescicolare cellulare, il sistema immunitario, la biosintesi dell’AMP… Ma, a dirla tutta, ovunque guardino, i biologi trovano solo complessità. «Complessità dopo complessità», scrive in un suo saggio David Berlinski, membro del Center for Science and Culture del Discovery Institute di Seattle, che poi riporta come secondo il biologo australiano Michael Denton ci apparirebbe una cellula, una singola cellula, se essa fosse grande quanto un’astronave:
«Sulla superficie della cellula vedremmo milioni di aperture, simili agli oblò di una grande nave spaziale, che si aprono e si chiudono per consentire il passaggio di un continuo flusso di materiale. Se dovessimo entrare in una di queste aperture ci ritroveremmo in un mondo di alta tecnologia e sbalorditiva complessità. Vedremmo infiniti corridoi e condotti altamente organizzati che si irradiano in ogni direzione dal perimetro della cellula; alcuni che si dirigono verso la banca centrale della memoria nel nucleo, e altri che assemblano componenti ed elaborano unità. Lo stesso nucleo sarebbe una grande camera sferica di oltre un chilometro di diametro, simile a una cupola geodetica, al cui interno vedremmo chilometri di catene a spirale della molecola del DNA, tutte ordinatamente impilate e allineate. Noteremmo che i più elementari componenti della cellula, le molecole proteiche, sono strutture spaventosamente complesse di apparato molecolare. Eppure la vita della cellula dipende dalle attività integrate di probabilmente centinaia di migliaia di diverse molecole proteiche». E pensare che la cellula, riprende poi Berlinski, «per quanto complessa, è marginale rispetto al sistema nervoso dei mammiferi» e che, spingendosi ancora un passo oltre, «c’è la mente umana, uno strumento di assoluta unicità nel mondo biologico: cosciente, flessibile, penetrante, imperscrutabile e profondo».
Ma siamo già abbondantemente troppo oltre le capacità esplicative della teoria darwiniana, che non riesce a dare conto dello sviluppo di un flagello batterico, figuriamoci se può solo arrischiarsi a fornire un resoconto evolutivo credibile delle meraviglie dell’intelletto umano.
La verità è che ormai «l’evoluzionismo è una teoria antiscientifica; che pretende di dare per provato quel che non riesce a provare. In quanto tale, è un’ideologia oscurantista, che probabilmente ostacola ulteriori progressi della scienza».
La sua visione riduzionista, la cui sterilità e inadeguatezza appaiono ogni giorno sempre più innegabili, impedisce lo sviluppo di nuovi paradigmi di ricerca che possano condurre ad una maggiore comprensione della complessità che gli studiosi osservano di continuo nei loro laboratori. È solo questione di tempo prima che il darwinismo venga spazzato via dalla marea montante di evidenze empiriche che ne contraddice gli assunti fondanti.
Antonio Schiavone