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L’origine della vita: alternativa scientifica al darwinismo
SCIENZE – Intelligent design
La teoria dell’evoluzione darwiniana, se mai ha avuto qualcosa di scientifico su cui poggiare, si è ridotta oggi a nient’altro che un’accozzaglia di luoghi comuni smentiti dalle evidenze empiriche. Un insieme di princìpi difesi come fossero dogmi di fede ai quali piegare la realtà, più che supposizioni da verificare ed eventualmente rivedere.
Una nuova ipotesi, alternativa al darwinismo, che sembra in grado di fornire una spiegazione più esauriente e che soprattutto pare poggiare su più solide basi scientifiche, è l’intelligent design – ossia il progetto intelligente. L’idea di una causa intelligente a fondamento di alcune caratteristiche del mondo naturale è antichissima, perdendosi nella notte dei tempi, costituendo il nucleo essenziale di innumerevoli miti e religioni.
Innanzitutto, per dirla con le parole del matematico e filosofo William Dembski, il progetto intelligente “non è creazionismo confezionato in modo nuovo, nè fideismo mascherato da scienza: è invece una teoria pienamente scientifica, formulabile come tale”. Teoria basata su prove scientifiche e non su Sacre Scritture o dottrine religiose. Per questo, l’intelligent design non effettua alcuna ipotesi riguardo l’identità del progettista e non sostiene che il progetto sia impeccabile: anche qualcosa di imperfetto può essere progettato (quando un’automobile viene ritirata dal mercato perché difettosa non vuol dire che non era stata progettata, ma che era stata progettata male).
La deduzione del progetto
Ma da cosa si desume la presenza di un progetto intelligente nella natura?
Prendiamo il caso di una composizione floreale realizzante la scritta “Benvenuti ad Acerra”. Osservandola, chiunque si rende immediatamente conto che essa è stata progettata da un’intelligenza. La logica alla base dei meccanismi attraverso i quali viene effettuata questa deduzione è stata studiata e analizzata da Dembski. Lo studioso è arrivato alla conclusione che essa non si limita ai prodotti dell’attività umana (come nel caso della composizione floreale), ma la stessa logica può essere utilizzata per dedurre la presenza di un progetto dalle evidenze fornite dalla natura. La vera novità nel lavoro dello studioso – per secoli scienziati, filosofi e teologi hanno sostenuto che la natura rivela l’esistenza di un disegno – è costituita dal suo rigore matematico e filosofico.
Dembski non sostiene che alcune cose siano troppo complesse per essere sorte per caso e dunque siano da attribuire ad un progetto. Innanzitutto, niente è troppo complesso da essersi originato casualmente. Per tornare all’esempio della scritta floreale, il vento potrebbe coprire la composizione con centinaia di foglie secche secondo uno schema più complesso di quello della semplice scritta: è evidente che in questo caso non si tratta di un progetto, ma di un evento accidentale. Inoltre, non basta escludere il caso per dedurre l’esistenza di un progetto. L’organizzazione regolare degli atomi del sodio e del cloro in un cristallo di sale non è dovuta al caso, ma a ben precise leggi chimico-fisiche. Un cristallo è ordinato, ma non rivela un progetto, quantomeno non nello stesso senso della scritta “Benvenuti ad Acerra”. Solo quando un modello non può essere plausibilmente attribuito al caso o alla regolarità naturale allora può essere dedotta l’esistenza di un progetto.
Dembski ha sottolineato la logica delle inferenze del progetto in quello che chiama filtro esplicativo: “Le regolarità sono sempre la prima linea di difesa. Se possiamo dare una spiegazione in termini di regolarità (ovvero il cristallo di sale, ndr), il caso e il progetto sono automaticamente esclusi. Similmente, il caso (le foglie secche portate dal vento, ndr) è sempre la seconda linea di difesa. Se non possiamo dare una spiegazione basata sulla regolarità, ma la possiamo spiegare con il caso, allora il progetto è automaticamente precluso. C’è quindi un ordine di priorità nella spiegazione. All’interno di quest’ordine la regolarità ha la priorità più alta, il caso ha la seconda, e il progetto l’ultima”.
L’informazione specifica complessa
Per comprendere come sia possibile adoperare il suo filtro esplicativo, Dembski introduce un altro concetto: l’informazione specifica complessa (ISC).
Partiamo dalla definizione di informazione: essa è l’attuazione di una possibilità ad esclusione delle altre. Ossia l’informazione riduce l’incertezza poiché sopprime possibilità. Per capire meglio la questione, ricorriamo ad un esempio. Immaginiamo di avere una scatola di pastelli di sette differenti colori (blu, giallo, verde, rosso, nero, arancione, marrone). La proposizione “questo pastello è nero” costituisce un’informazione perché nel contesto delle varie eventualità (tutti i colori) ne esclude alcune.
Ovviamente non tutte le informazioni hanno lo stesso contenuto informativo: restando allo stesso esempio, dire “questo pastello non è nero” significa fornire un’informazione minore della precedente: il pastello potrebbe essere blu, giallo, verde… Il contenuto di un’informazione (la sua complessità) è quindi misurabile in base alla probabilità della possibilità attuata. Nel primo caso (“questo pastello è nero”) la probabilità che il pastello fosse effettivamente nero era di una su sette; nel secondo (“questo pastello non è nero”) la probabilità era invece di sei su sette. Dunque: minore la probabilità, maggiore il contenuto dell’informazione.
Nel caso dell’organizzazione regolare degli atomi del sodio e del cloro nel cristallo di sale precedente, ad esempio, l’informazione è nulla: non c’erano altre possibilità per la loro disposizione, essendo questa regolata da determinate leggi chimico-fisiche. E questo è proprio il criterio indicato da Dembski nel procedimento del filtro esplicativo per il riconoscimento della regolarità: assenza di informazione. “La necessità è per definizione incapace di produrre informazione”: se vi è necessità infatti non vi sono alternative possibili, ma date le premesse la conclusione è univocamente determinata.
Una volta esclusa la regolarità, il passaggio successivo per dedurre l’eventuale esistenza di un progetto consiste nello scartare il caso. Operazione indubbiamente più problematica e delicata, per affrontare la quale Dembski ricorre al concetto di “specificazione”. Una specificazione è uno schema riconoscibile che esiste indipendentemente dal fenomeno in esame. Spiega lo stesso studioso: “Una gran quantità di eventi estremamente improbabili accade casualmente in ogni momento. La precisa sequenza di teste e croci in una lunga serie di lanci di moneta può essere correttamente spiegata appellandosi al caso. È solo quando la precisa sequenza di teste e di croci è stata documentata in precedenza che cominciamo a dubitare che questi eventi siano accaduti per caso. In altre parole, non è solo la pura improbabilità di un evento, ma anche la sua conformazione a un modello che ci porta a dare una spiegazione dell’evento che vada oltre il caso”.
Tralasciando le espressioni matematiche e di logica formale snocciolate dal nostro erudito, cerchiamo di seguire il suo ragionamento attraverso gli esempi che propone. Primo scenario: un arciere, da 50 metri, lancia una freccia verso una vasta parete bianca e la colpisce in un punto. Secondo scenario: l’arciere disegna sulla parete un cerchio, poi lancia la freccia da 50 metri e colpisce il centro del cerchio. Supponiamo che il punto in cui la freccia si ficca nella parete sia lo stesso in entrambi gli scenari. “In entrambi i casi, la freccia poteva ficcarsi in qualunque punto; di più, qualunque punto è altamente improbabile da colpire. Ne segue che in entrambi i casi viene attualizzata una informazione molto complessa. E tuttavia, la conclusione informativa che ricaviamo nei due casi è molto diversa. Nel primo, non possiamo dire nulla sull’abilità dell’arciere. Nel secondo, abbiamo la prova della sua abilità”. La differenza è che nel primo scenario l’informazione è senza bersaglio, non è iscritta in uno schema o modello; nel secondo invece sì. “L’attualizzazione di una possibilità (informazione) è specificata se indipendentemente dall’attuazione della possibilità, la possibilità stessa è identificabile in base a modelli o bersagli”.
Ovviamente si intende che tali modelli o bersagli siano presenti indipendentemente dall’evento. Consideriamo un terzo scenario: l’arciere lancia la freccia e dopo disegna un cerchio attorno al punto della parete in cui si è ficcata. Va da sè che in questo caso si verifica un inganno: qualcosa che sembra un’informazione specifica, ma non lo è. Detto fra parentesi, è proprio ciò che pensano gli evoluzionisti della vita: secondo loro, sembra l’opera di un progetto intelligente, mentre invece è opera del caso. Difatti, prima la vita ha luogo e solo successivamente entra in scena un agente razionale (lo studioso o, più in generale, l’essere umano) capace di concepire schemi.
In realtà, questo caso corrisponde a un quarto scenario: “Alice e Bob celebrano l’anniversario del loro matrimonio. I loro sei figli fanno loro un regalo ciascuno. Ogni regalo è parte di un servizio da tavola. Alice e Bob, prima di aprire i pacchetti, non hanno la minima idea di quel che hanno ricevuto, nessuno schema preordinato a cui riferirsi. Tuttavia, lo schema che si forma nella loro mente dopo aver visto i regali può benissimo formarsi indipendentemente dai regali stessi. Di fatto, tutti noi sappiamo coordinare un servizio da tavola, e distinguerlo dai pezzi scoordinati di vari servizi. Questo schema, benché posteriore, costituisce una specificazione. Anzi, con questa specificazione è connessa un’ovvia inferenza: che i sei figli non hanno scelto i loro regali come casuali atti di gentilezza, ma si sono messi d’accordo tra di loro”.
Così infatti è l’informazione della vita. Anche se lo schema in cui è iscritta lo capiamo dopo che essa ha generato noi esseri razionali, la vita corrisponde a schemi funzionali che sono indipendenti dai viventi attuali. Questi schemi funzionali possono essere formulati in varie maniere: in termini ad esempio di vitalità degli organismi complessi, o di complessità irriducibile (su questo concetto, formulato dal biochimico americano Michael Behe, ci torneremo più avanti), o anche – come fanno i darwinisti – in termini di funzionalità degli organismi nel propagare i loro geni. In ogni caso, si tratta di schemi indipendenti rispetto ai viventi attuali.
In conclusione, secondo Dembski, la complessità specifica è il marchio del progetto nella spiegazione dell’origine di un fenomeno. E questo perché l’informazione specifica e complessa non può essere generata nè dalla necessità (nessuna informazione) nè dal caso (che può produrre informazione complessa ma non specifica, oppure specifica ma non complessa, ma mai specifica e complessa insieme). Dunque nè il caso nè la necessità da soli possono dare origine a informazione specifica complessa. Ma nell’eventualità che caso e necessità cooperassero assieme, potrebbero originare ISC? È esattamente la posizione sostenuta dall’evoluzionista Jacques Monod, biologo e filosofo francese.
Il caso e la necessità secondo Jacques Monod
La teoria dell’evoluzione darwiniana si basa sostanzialmente sui concetti di mutazioni e di selezione naturale. Per mutazioni si intendono variazioni non pianificate del materiale genetico (dovute ad agenti esterni o ad errori di replicazione) sulle quali opererebbe la selezione naturale conservando quelle favorevoli e distruggendo quelle nocive.
In pratica nel suo libro del 1970, Il caso e la necessità, lo studioso francese dà vita ad una sintesi tra il caso, responsabile secondo Monod dell’origine delle mutazioni, e il rigido determinismo (la necessità) che interverrebbe invece nel meccanismo della selezione naturale nel momento in cui l’essere vivente mutato si deve mettere alla prova con l’ambiente. Per dirla a parole sue: “Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell’evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi sono microscopici e fortuiti”; tuttavia, dal momento in cui la modifica nella struttura del DNA si è verificata (ossia una volta avvenuta la mutazione), “l’avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni”. Praticamente, secondo Monod, il caso e la necessità insieme sarebbero perfettamente in grado di spiegare l’immensa complessità della vita attuale, ossia – adoperando la terminologia di Dembski – la presenza di ISC nella natura.
A questa tesi, il matematico risponde così: “Quando caso e necessità operano insieme, i contributi rispettivi devono essere disposti in modo sequenziale (secondo dunque uno schema preciso, ndr). Facciamo un esempio: cerchiamo di vincere al Superenalotto con il metodo detto ‘per tentativi ed errori’ (dove il tentativo è la necessità e l’errore il caso), lo stesso metodo con cui, disperati, cerchiamo una chiave perduta aprendo tutti i cassetti, e guardando sotto tutti i mobili di casa. Spenderemo cifre colossali nelle puntate, e quasi certamente non vinceremo al Superenalotto. Il meccanismo darwiniano di ‘mutazione’ e ‘selezione’ è appunto un processo del genere: la mutazione è l’errore e la selezione è il tentativo”. Dembski sorride: “È incredibile che il metodo ‘per tentativi ed errori’, che proprio gli scienziati riconoscono come il più rozzo e inefficiente metodo di soluzione dei problemi, sia da loro innalzato allo stato di fonte assoluta della sapienza e creatività della natura”.
Un esempio di informazione specifica complessa nella natura
Dopo aver compreso il concetto di ISC, e come esso secondo Dembski costituisce il segno specifico della presenza di un progetto, bisogna chiedersi: l’informazione specifica complessa è presente nella natura? La risposta sembra essere affermativa. Prendiamo in esame una scoperta fondamentale della scienza moderna: la comprensione della struttura molecolare del DNA ad opera dei ricercatori James Watson e Francis Crick nel 1953. Scoperta che condusse ad ulteriori conquiste: come il DNA codifichi l’informazione genetica che prescrive i mattoni proteici delle cellule viventi; come questa informazione venga copiata e trasmessa alle successive generazioni; e come gli incidenti molecolari (ossia le mutazioni) possano introdurre dei cambiamenti nell’informazione genetica che forniscono la materia prima dell’evoluzione. Nel 1970 il biologo francese Monod (nello stesso libro di cui abbiamo parlato prima, Il caso e la necessità) affermò che grazie alla nuova comprensione della struttura e della funzione del DNA, “e alla comprensione della base fisica casuale della mutazione fornita anch’essa dalla biologia, il meccanismo del darwinismo è finalmente fondato con sicurezza”, concludendo gongolante: “L’uomo deve rendersi conto di essere un mero accidente”.Monod però aveva torto. Il segreto della vita non è la molecola fisica del DNA, ma l’informazione che porta con sè.
Senza appesantire la trattazione entrando troppo nei dettagli, si tenga presente che il DNA consiste fondamentalmente in una coppia di filamenti intrecciati tra di loro (doppia elica), ognuno dei quali formato da serie ripetute di quattro sub-unità, ognuna delle quali costituita da un identico gruppo di zucchero fosfato al quale è attaccata una delle quattro diverse basi (A, T, C, G). I geni sono comunemente considerati come le sequenze di DNA che contengono l’informazione necessaria per specificare le sequenze di proteine di cui una cellula necessita. Il filosofo della scienza Stephen C. Meyer fa notare che il DNA possiede tre importanti proprietà che gli consentono di trasportare questa informazione.
In secondo luogo, un tipico gene è lungo parecchie centinaia di basi, e pertanto la sua precisa sequenza è altamente improbabile. Come se pescando delle lettere a caso dall’alfabeto si volesse ottenere una frase significativa. Se questo è vero per un solo gene, figuriamoci per l’intero DNA, che costituisce quindi un’informazione estremamente complessa (improbabile).
Terzo: l’informazione del DNA è altamente specifica. Una cellula vivente non ha bisogno solo di DNA, ma di DNA che codifichi delle proteine funzionali. Per essere funzionale, una proteina deve possedere una sequenza molto specifica. Francis Crick, nel 1958, scrisse: “Per ogni particolare proteina gli amminoacidi devono essere congiunti nel giusto ordine”. Ogni proteina è composta da un numero variabile di amminoacidi. Il fisico Murray Eden del MIT ha stimato che il numero di proteine vitali è pari a 10 elevato alla 50esima (1 seguito da 50 zeri). Un numero enorme: basti pensare che se prendiamo per buona la teoria del Big Bang, il numero di tutti i secondi trascorsi da allora fino ad oggi è minore di 10 alla 18esima. Eppure questo numero è quasi trascurabile se lo paragoniamo al numero di possibili sequenze casuali di amminoacidi: anche considerando una proteina medio-piccola, composta da 100 amminoacidi per esempio, il numero delle possibili sequenze dei 20 amminoacidi che compaiono nelle proteine degli esseri viventi è pari a 20 elevato alla 100esima (approssimabile per difetto a 10 alla 130esima). Per capire bene gli ordini di grandezza, pensiamo alla differenza che passa tra un chilometro ed un millimetro. Un chilometro equivale a mille metri, ossia ad un milione di millimetri (10 alla sesta): c’è quindi una differenza di solamente 6 zeri. Tra il numero delle proteine vitali (frasi significative) e il numero complessivo di proteine possibili (sequenze casuali di lettere) c’è un abisso superiore agli 80 zeri (10 alla 50esima contro 10 alla 130esima)!
Pertanto le proteine, e il DNA che le codifica, sono sia complesse che specifiche; e non sono gli atomi o le molecole che contano, ma il fatto che sono organizzati in maniera tale da poter trasportare l’informazione. Ma da dove viene l’informazione? Secondo Dembski, come abbiamo visto, essendo in presenza di informazione specifica e complessa insieme dovremmo attribuirne l’origine ad una causa intelligente. Ma l’inferenza suggerita da Dembski non è l’unica possibile.
L’inferenza della migliore spiegazione
Negli anni ’80 Meyer, allora giovane geofisico, rimase affascinato da un’idea letta nel libro Il mistero dell’origine della vita, scritto da Charles B. Thaxton, Walter L. Bradley e Roger L. Olsen. Per spiegare il contenuto informativo del DNA, i tre autori adottarono il principio di uniformità esposto da un contemporaneo di Darwin, il geologo Charles Lyell.
Thaxton, Bradley e Olsen scrivevano: “Per principio di uniformità si intende che il genere di cause che vediamo produrre certi effetti oggi può averli prodotti anche in passato”. Noi osserviamo nel presente che gli agenti intelligenti possono generare informazione. “Il principio di uniformità non potrebbe essere usato”, si chiedevano gli autori, “per suggerire che il DNA ha al suo principio una causa intelligente?”.
Meyer approfondì questa idea. Osservò che gli scienziati spiegano gli eventi passati adottando l’inferenza della migliore spiegazione. La scienza storica si affida tipicamente a cause uniformi che possono essere osservate nel presente. Per esempio, uno strato di cenere nelle stratificazioni rocciose si spiega meglio con una passata eruzione vulcanica che con un terremoto, poiché noi osserviamo nel presente che il primo produce strati di cenere, mentre il secondo no. Seguendo questo ragionamento, Meyer formuò un’inferenza scientifica sulla migliore spiegazione per l’origine dell’informazione contenuta nel DNA. Poiché “sappiamo che gli agenti intelligenti producono grandi quantità di informazioni, e poiché tutti i processi naturali non lo fanno (o non possono farlo), possiamo dedurre che il progetto sia la migliore spiegazione dell’origine dell’informazione contenuta nella cellula”.
I darwinisti hanno sollevato parecchie obiezioni alla tesi di Meyer. L’hanno accusato di argomentare sulla base dell’ignoranza, in quanto egli deduce il progetto solo quando non conosce la causa di qualcosa. A questa obiezione Meyer ha risposto spiegando che “le inferenze della migliore spiegazione non asseriscono l’adeguatezza di una spiegazione causale solamente sulla base dell’inadeguatezza di qualche altra spiegazione causale. Confrontano invece il potere esplicativo di molte ipotesi concorrenti per determinare quale ipotesi, se vera, offre la migliore spiegazione di certi insiemi di dati rilevanti”, aggiungendo inoltre che “non è corretto dire che non sappiamo come sorga l’informazione”: sappiamo che nasce dagli agenti intelligenti.
Alcuni altri critici del lavoro di Meyer hanno invece sostenuto che le sequenze del DNA risultano semplicemente dall’azione delle leggi naturali. Già abbiamo osservato perché, secondo Dembski, le cause naturali (necessità) siano per definizione incapaci di produrre informazione. Meyer comunque ha fatto notare come la sequenza delle basi nel DNA non è predeterminata da leggi fisiche o chimiche. Se un gruppo di zucchero fosfato è unito a una G, il successivo gruppo può avere una G, una C, una T o una A. Sebbene le sequenze delle basi su un filamento determinino la sequenza delle basi sull’altro filamento, nessuna legge fisica o chimica impone quale sequenza debbe essere presente su un filamento isolato di DNA. Del resto, se le affinità chimiche tra le basi di un singolo filamento determinassero univocamente la loro sequenza, il filamento non potrebbe trasportare l’informazione ereditaria. Il chimico Michael Polanyi scrisse una volta che se la sequenza precisa delle basi in una molecola di DNA fosse determinata dai legami chimici tra di loro, “allora questa molecola di DNA non avrebbe contenuto informativo. La sequenza deve essere fisicamente indeterminata come la sequenza di parole su una pagina stampata”.
“L’informazione contenuta in una frase in inglese o in un programma informatico”, aggiunse Meyer, “non deriva dalla chimica dell’inchiostro o dalla fisica del magnetismo, ma da una fonte completamente estrinseca alla fisica e alla chimica. In entrambi i casi, infatti, il messaggio trascende le proprietà del mezzo”. Questo non significa che non valgano le leggi fisiche o chimiche. Quando scriviamo un documento al computer, ad esempio, non violiamo alcuna legge naturale: adoperiamo i processi fisiologici naturali per muovere le dita e i processi meccanici o elettronici naturali per registrare le parole. Tuttavia, scriviamo quello che ci pare.
Irriducibile complessità
Un altro argomento a favore della teoria del progetto intelligente (e che di conseguenza si oppone al darwinismo) è stato esposto dal biochimico Michael Behe nel suo libro La scatola nera di Darwin del 1996.
In realtà l’idea sviluppata da Behe era già stata posta in precedenza dal biologo teorico Michael J. Katz della Case Western Reserve University nel 1986, che in una monografia scientifica aveva scritto: “Gli organismi contemporanei sono molto complessi e hanno un’organizzazione speciale e intricata che non potrebbe essersi verificata spontaneamente per caso. Le ‘leggi universali’ che governano l’assemblaggio dei materiali biologici sono insufficienti a spiegare gli organismi che ci fanno compagnia: non si può riunire insieme la materia prima appropriata e lasciare che si auto-assembli in un topo”. Secondo Katz, “ci sono delle utili spiegazioni scientifiche per questi sistemi complessi, ma i modelli finali che producono sono così eterogenei che non possono essere efficacemente ridotti a più piccoli o meno intricati componenti predecessori”. In sintesi, lo studioso afferma che tali “modelli sono, in un senso fondamentale, irriducibilmente complessi”. Per Katz, la complessità irriducibile costituiva un grosso ostacolo per la biologia evolutiva.
Dieci anni dopo, il biochimico Behe della Lehigh University (in maniera indipendente dall’opera di Katz) fece un ulteriore passo in avanti, sostenendo come la complessità irriducibile non solo confuti la teoria di Darwin, ma costituisca anche una conferma del progetto intelligente.
La biochimica investiga i fenomeni della vita a livello molecolare, pertanto fanno parte del suo campo d’indagine – almeno in parte – immunologia, embriologia, genetica. E proprio per questo, Behe è uno dei più infaticabili oppositori del darwinismo. Quello che Behe vede nei suoi studi, dice, sono “macchine: macchine composte di molecole”. Macchine, si badi bene, ossia sistemi o apparati progettati.
Ne L’origine delle specie Darwin aveva scritto: “Se si potesse dimostrare l’esistenza di un qualsiasi organo complesso che non si sia potuto formare attraverso modificazioni numerose, successive, lievi, la mia teoria dovrebbe assolutamente cadere”. Nel suo libro, il biochimico americano scrive: “Che genere di sistema biologico non potrebbe essersi formato attraverso ‘modificazioni numerose, successive, lievi’? Tanto per cominciare, un sistema che sia irriducibilmente complesso. Per irriducibilmente complesso intendo un singolo sistema composto da diverse e ben assortite parti interagenti, che contribuiscono alla funzione basilare, laddove la rimozione di una qualunque delle parti causi l’effettiva cessazione del funzionamento del sistema”. Per spiegare il concetto, Behe ricorre all’esempio di una trappola per topi.
Una comune trappola per topi, semplicissima, composta di soli cinque pezzi: una tavoletta di legno, sulla quale sono fissati gli altri componenti; un martelletto di metallo che schiaccia il topolino; una molla collegata alla base e al martelletto; un gancio sensibile sul quale è posta l’esca ed una barra metallica collegata al gancio, che trattiene il martelletto quando la trappola è carica. Nella sua semplicità, afferma Behe, la trappola per topi è irriducibilmente complessa: se manca uno solo dei pezzi, non funzionerà più. Non è che funzionerà in maniera meno efficiente; non funzionerà per nulla. Tale complessità irriducibile costituisce per lo studioso il marchio del progetto. Anche se alcune o tutte le sue parti possono servire ad altri scopi, per catturare i topi non potrebbero essere organizzate in una maniera differente da questa. E anche se una trappola può essere costruita in una serie di successive modificazioni, come ha dimostrato il critico di Behe John H. McDonald, queste modificazioni dovrebbero essere guidate da un agente intelligente. Darwin, nei suoi scritti, per “modificazioni numerose, successive, lievi” intendeva modificazioni non guidate e per questo motivo l’esempio di McDonald (come riconosciuto da lui stesso) non può servire come analogia dell’evoluzione darwiniana.
In ogni caso, una trappola per topi non è un essere vivente. Gli esseri viventi contengono delle caratteristiche irriducibilmente complesse? Se la risposta è sì, allora pongono una sfida al darwinismo: la selezione naturale non può assemblare parti aventi lo scopo di realizzare funzioni future; può solo preservare delle caratteristiche già dotate di funzioni. La vita esibisce ovunque macchine con simili caratteristiche, costituite da proteine e molecole anziché ferro, legno e formaggio; ma dotate della stessa complessità irriducibile.
Behe stesso nel suo libro fornisce vari esempi di caratteristiche delle cellule che sono irrimediabilmente complesse, tra cui il meccanismo fotosensibile dei nostri occhi e la struttura del flagello batterico.
Ne L’origine delle specie Darwin riconosceva che l’occhio umano presenta un problema per la sua teoria. Quando la luce colpisce la retina umana, viene assorbita da una molecola che altera una proteina unita ad essa, la quale dà il via a quella che i biochimici chiamano sequenza a cascata, una serie di reazioni molecolari precisamente integrate, che in questo caso provoca la trasmissione di un impulso nervoso al cervello. Se una sola molecola della sequenza è mancante o difettosa, non viene trasmesso alcun impulso: la persona è cieca. Non è che non ci vede bene, non ci vede proprio. La teoria dell’evoluzione non è in grado di spiegare come si sia formato l’occhio umano, come sia stato possibile l’assemblaggio tra loro di tutte queste molecole per produrre un meccanismo così sofisticato.
Il flagello batterico è un lungo filamento simile a un capello, utilizzato da molti batteri per nuotare. Alla base di ogni flagello c’è un motore biochimico in grado di girare migliaia di volte al minuto e invertire direzione in un quarto di giro. L’albero motore è attaccato ad un rotore che gira all’interno di uno statore, e l’intero assemblaggio è ancorato nella parete cellulare da vari passanti. Il filamento stesso è attaccato all’albero motore da un gancio che funziona come un giunto universale, in modo che il flagello possa attorcigliarcisi quando gira.
Come si sarà formata tutta questa struttura? Immaginiamo la risposta dei darwinisti: con casuali, continue e piccole mutazioni, poi conservate e perfezionate, di generazione in generazione di batteri; dapprima l’apparato sarà stato meno efficiente, poi sarà intervenuta la selezione naturale, eliminando i microbi cigliati più lenti nel nuoto, e lasciando in vita i più veloci, i favoriti nella lotta per la vita. E invece no, risponde Behe: il motore dei ciliati è irriducibilmente complesso, nel senso che ogni suo elemento e componente è necessario. Se ne manca solo uno, il flagello non si sposterà più lentamente o con maggiore difficoltà: non si muoverà affatto.
Conclusione
L’argomento affrontato, per la sua vastità e complessità, non è adatto al web. Ho cercato di essere il più sintetico possibile, non sacrificando però la chiarezza espositiva. Ho dovuto però omettere per ragioni di brevità parecchie precisazioni e tante altre tematiche. Chiunque volesse saperne di più sull’argomento, richiedere qualche chiarimento o esprimere critiche e perplessità può scrivermi o lasciare un commento. Ci tengo a precisare che non sono uno scienziato, nè un biologo, nè un matematico, nè un fisico, nè un filosofo. La quasi totalità delle informazioni, così come molti esempi, sono tratti da varie fonti. Due libri in particolare hanno costituito la traccia lungo la quale mi sono mosso: Le balle di Darwin, di Jonathan Wells e La disfatta evoluzionista, di Maurizio Blondet. La mia è stata principalmente solo un’opera di sintesi e divulgazione di parte del loro lavoro.
Antonio Schiavone