La tempesta di fuoco che arse Dresda

Pubblicato da il 5 gennaio 2012

La Firenze dell’Elba che accolse i profughi

Capitale della Sassonia e dell’umanesimo barocco tedesco, terra di principi e di re, di bellezze naturali e paesaggistiche da mozzare il fiato, Dresda era dedita completamente alla cultura ed all’arte, una delle più affascinanti città della Germania e del mondo intero.

Dresda era una delle più belle e romantiche città d’Europa. Aveva scorci di grande suggestione, palazzi barocchi e rococò, piccole case di legno e mattoni fulvi che risalivano al medioevo gotico, vicoli punteggiati di taverne e birrerie senza tempo. Priva di industrie primarie, viveva una vita culturale intensa e cosmopolita”.

La “Firenze dell’Elba” (come ebbe a scrivere il poeta Gottfried Jeder) contava in tempo di pace una popolazione maggiore alle 600.000 unità (per estensione costituiva il settimo centro abitato della nazione germanica), ma all’epoca del bombardamento ospitava centinaia di migliaia di rifugiati ed un elevato numero di soldati feriti.

Tale era l’affluenza di profughi (in fuga dall’Armata Rossa) dalla Slesia, dalla Pomerania Orientale e dalla Prussia, che è ragionevole supporre che la notte del triplice attacco aereo fossero presenti in città circa 1.200.000 persone; la stragrande maggioranza delle quali semplicemente accampate alla meglio, senza un tetto sulla testa né – figurarsi – un rifugio antiaereo.

E tra quest’umanità braccata dalle armate comuniste che aveva cercato scampo a Dresda c’era Edda West, che racconta della fuga insieme alla madre ed alla nonna (il nonno e molti altri membri della sua comunità erano stati deportati nei gulag siberiani durante la prima occupazione sovietica del ’39-’40, dove erano morti di freddo e di stenti).

Scapparono da Tallin, in Estonia, “con una nave tedesca da evacuazione, che raggiunse la Germania attraverso il Baltico”. Un’altra nave, carica di profughi, “venne bombardata e affondò, senza che vi fossero superstiti”. “Vivevamo momento per momento”, ricorda. Con l’unica convinzione “che, quale che fosse il destino che avremmo dovuto fronteggiare, sarebbe stato comunque migliore che l’essere condannate ai campi di lavoro sovietici e a morte certa, nel caso in cui fossimo rimaste in Estonia. Ci unimmo al fiume di migliaia di rifugiati in cerca di un riparo e di un luogo sicuro, chiedendoci ogni giorno dove potessimo trovare del cibo e un tetto e dove potessimo nasconderci per avere salvezza”.

Un viaggio tortuoso, in compagnia della fame e della disperazione, con la sola speranza di trovare un rifugio dove ritemprare i propri animi provati dalla guerra, e “avvenne che fosse Dresda quella destinazione, la preghiera esaudita, il porto sicuro per centinaia di migliaia di profughi, la maggior parte dei quali erano donne e bambini. Molti fuggivano dall’armata sovietica in arrivo dall’est ed erano venuti a Dresda perché avevano sentito dire che si trattava di un luogo sicuro, che non sarebbe stato preso di mira dai bombardamenti perché non c’erano né fabbriche di munizioni, né installazioni militari, né artiglieria pesante in grado di alimentare la macchina bellica. Anche alla Croce Rossa era stato promesso che Dresda non sarebbe stata bombardata”.

Purtroppo per loro si sbagliavano.

Era martedì grasso (il 13 febbraio 1945), la città intera stava festeggiando il carnevale (a riprova del fatto che non si temevano attacchi, del resto Dresda non era mai stata toccata seriamente dalla guerra ed era convinzione comune – non solo dei profughi – che fosse un posto tranquillo dove attendere la fine del conflitto).

C’era aria di festa, nonostante tutte le brutture e i patimenti subiti, i bambini in maschera affollavano le strade, quando – verso le dieci di sera – le sirene di allarme aereo interruppero i clown che si stavano esibendo nel carosello finale dello spettacolo del Circo Sarassini.

Di lì a poco, Dresda fu scaraventata nell’orrore.
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