L’eccidio partigiano di Madonna dei Monti

Pubblicato da il 2 novembre 2011
I vinti non dimenticano, libro di Giampaolo Pansa
STORIA – Arcevia, 13-14 luglio 1944

La guerra civile che strinse nella sua morsa l’Italia sul finire (e oltre) della II Guerra Mondiale fu un coacervo di meschinità, soprusi e crudeltà. Da una parte e dall’altra. Di solito dietro queste tragedie di sangue si celava un fine, uno scopo – per abbietto che fosse.

Ad Arcevia, piccolo comune marchigiano, l’esecuzione di tredici civili ad opera dei partigiani comunisti delle brigate d’assalto “Garibaldi” fu, invece, un crimine esclusivamente dettato dall’odio e dal fanatismo ideologico: all’epoca dei fatti (risalenti al luglio del ’44), nella zona il conflitto era ormai terminato ed i tedeschi si stavano ritirando.

Nella notte tra giovedì 13 e venerdì 14, le vittime furono prelevate una dopo l’altra dalle proprie abitazioni e condotte in una località chiamata Madonna dei Monti, dove furono pestate, seviziate ed assassinate a raffiche di mitragliatrici. Nessuno fece ritorno a casa. “La strage delle ricamatrici”, la ricordano alcuni, benché in realtà le vittime non furono tutte donne e non tutte e sei le donne ammazzate svolgessero quel lavoro.

Mappa di Arcevia

Mappa di Arcevia

Si trattò di una mattanza del tutto gratuita, che si tentò poi di giustificare – come sovente accadde in quegli anni – con la menzogna che si trattasse di spie al servizio dei comandi tedeschi. Accusa ridicola, mossa senza alcuna prova, la cui meschina infondatezza emerge dalla storia stessa degli innocenti barbaramente trucidati.

Di uno in particolare, tale Mario Santini, 61enne dottore in agraria. Santini aveva un figlio, Giorgio, di 17 anni. Verso la fine di giugno alle Conce di Arcevia un commando partigiano uccise tre soldati austriaci e per rappresaglia i tedeschi fecero una retata nel paese, catturando un gruppo di giovani che vennero deportati in Germania. Tra di loro c’era Giorgio Santini, che morì quasi subito e fu sepolto nel cimitero di Monaco di Baviera.

Ipotizzare che il dottore in agraria fosse una spia al soldo di Hitler è un’accusa che non vale neppure la pena di contestare. Come del resto sembra assurdo sostenere che i pensionati Nazzareno Pandolfi (ex-commerciante 73enne) e Pietro Paggi (prossimo agli 80 anni) fossero informatori prezzolati dei tedeschi. Forse allora le traditrici erano le sorelle Annita e Bianca Poiani, che si guadagnavano da vivere ricamando tovaglie, lenzuola e biancheria intima.

La verità è che nessuna delle tredici persone che trovarono la morte quella notte d’estate era verosimilmente legata in alcun modo alle due opposte fazioni che seminarono lutti e dolori nell’Italia di quegli anni.

L’unica testimonianza da parte dei civili uccisi ci è stata tramandata dal nipote di una delle vittime, fissata in un articolo comparso sulle pagine di un settimanale di destra, “Il Borghese”, nel numero del 20 maggio 1955. In questo racconto, scritto undici anni dopo la vicenda, il signor Luciano Anselmi – nipote di Maria Teresa Podestà, vedova 63enne che fu rastrellata quella notte – narra alcuni dettagli che fanno ben comprendere la sete di vendetta che animò i combattenti comunisti ed il clima avvelenato che si diffuse in città. Quando la mattina del 14 luglio accompagnò la madre, recatasi dal podestà del paese per ottenere notizie della cognata Maria Teresa, scorse fuori dal municipio un cartello appeso a un chiodo che ammoniva: “Non suonate le campane a morto, sono traditori della patria”. La sua testimonianza prosegue, ricordando come a loro ed agli altri parenti delle vittime fu persino consigliato di non piangere, poiché le lacrime avrebbero potuto provocare i partigiani. “I morti – scrive Anselmi – furono caricati su dei barrocci ammassati come bestie e portati al cimitero. Qui non fu possibile una messa, un funerale, un mazzo di fiori. Il parroco stesso aveva perso la testa e assunse verso i parenti delle vittime un contegno per lo meno deplorevole. Passammo giornate infernali perché in paese si parlava di una seconda ondata della quale avrebbero fatto parte mia madre e mia nonna. Decidemmo dunque di partire e di rifugiarci in campagna. Il ricordo dei corpi maciullati e delle dita tagliate (a qualcuno avevano persino rotto il dito per togliere l’anello) mi accompagnò per tutto il viaggio. E benché avessi appena dieci anni, ricordo il dolore nei volti dei miei genitori”.

Una storia orribile, i cui strascichi si protrassero nel tempo. “I benpensanti” di Arcevia, racconta Anselmi, “per un po’ di anni finsero di credere che si fosse trattato di spionaggio”, benché nessuno abbia mai presentato lo straccio di una benché minima prova o il più piccolo indizio. “Proprio loro” – incalza – “che ben conoscevano le persone assassinate e che per anni tolsero il saluto ai parenti delle vittime per non compromettersi. Ma anche ad Arcevia il tempo è passato” e chi non salutava più ritorna a farlo. Ma nessuna giustizia è stata fatta, “gli assassini sono rimasti impuniti” e “continuano a fare i comunisti e togliere i fiori che qualche coraggioso depone nella piccola radura di terra rossa che vide il martirio di tredici innocenti”.

Antonio Schiavone
02 novembre 2011

Note e approfondimenti:
Tra le donne vittime di quella tragica notte la più anziana si chiamava Maria Teresa Podestà, vedova Anselmi, 63enne originaria di Chiavari. C’erano poi le sorelle Annita e Bianca Poiani (che avevano rispettivamente 53 e 45 anni), ricamatrici. Insieme a loro quella notte furono prelevate anche Teresa Togni (nata a Matera nel 1893), che di mestiere faceva la sarta e Ada Moriconi, casalinga di 35 anni. I partigiani presero in consegna anche Giuseppe e Nunzia D’Oca, probabilmente padre e figlia, pensionato 64enne il primo e casalinga 25enne la seconda. L’elenco degli innocenti continua con la presenza del 77enne Pietro Paggi e del 73enne Nazzareno Pandolfi. Tra gli over 50 rastrellati c’erano anche Carlo Speranzini (55 anni) e Federico Romei, ingegnere originario di Napoli oltre che Mario Santini, 61enne dottore in Agraria. Giovanbattista Ielapi, invece, era nato a Filadelfia (in provincia di Catanzaro) soltanto 29 anni prima.

Molto istruttiva la lettura del libro di Giampaolo Pansa, “I vinti non dimenticano. I crimini ignorati della nostra guerra civile”, nel quale il giornalista racconta altre simili vicende frutto dell’odio di quegli anni.

Centro Servizi Acerra