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La tempesta di fuoco che arse Dresda
1: Dresda, 13-14 febbraio 1945
2: La Firenze dell’Elba che accolse i profughi
3: Operazione Gomorra
4: Apocalisse a Dresda
5: La testimonianza di Elisabeth
La testimonianza di Elisabeth
Elisabeth, ventenne all’epoca dei fatti, riuscì miracolosamente a scampare alla morte, e ha scritto per i suoi figli un memorandum in cui descrive ciò che vide quel giorno. Rifugiatasi nella cantina della casa in cui abitava, avvertì “la detonazione delle bombe scuotere il terreno” provocando il panico nei rifugiati che si affrettarono scendere nei sotterranei.
“L’attacco durò circa mezz’ora” – racconta – “per fortuna il nostro edificio e la zona circostante non erano stati colpiti. Quasi tutti tornarono di sopra, pensando che fosse finita, ma non era così. Il peggio doveva ancora venire. Durante la breve tregua, lo scantinato si era riempito di persone in cerca di riparo, alcune delle quali erano rimaste ferite dalle schegge delle bombe. A un soldato era stata tranciata via una gamba. Lo accompagnava un medico che cercava di prendersi cura di lui, ma lui urlava di dolore e c’era molto sangue. C’era anche una donna ferita, il cui braccio, appena al di sotto della spalla, era stato reciso e ora le penzolava appeso ad un pezzo di cartilagine. Un medico militare si prendeva cura di lei, ma la perdita di sangue era molto copiosa e le sue urla erano spaventose”.
Nemmeno il tempo per superare lo shock che “ricominciarono a cadere le bombe. Questa volta non c’erano pause tra le detonazioni e gli scossoni erano così forti che perdemmo l’equilibrio e fummo scagliati qua e là per il sotterraneo come un mucchio di bambole di pezza. In certi momenti i muri della cantina si dividevano a metà e si sollevavano verso l’alto. Vedevamo all’esterno i lampi delle terribili esplosioni. C’erano una quantità di bombe incendiarie e contenitori di fosforo che si rovesciavano ovunque. Il fosforo era un liquido denso che prendeva fuoco appena esposto all’aria e quando penetrava nelle crepe degli edifici bruciava tutto ciò con cui veniva a contatto. Le sue esalazioni erano tossiche. Quando lo vedemmo scorrere lungo i gradini del sotterraneo, qualcuno urlò di prendere le birre (ce n’erano alcune immagazzinate nel luogo in cui ci trovavamo), di inumidire uno straccio o un pezzo dei nostri vestiti e premercelo contro la bocca e il naso. Il panico era terrificante. Tutti spingevano, premevano e graffiavano per impossessarsi di una bottiglia.
Io mi ero tolta un pezzo di biancheria, lo avevo imbevuto di birra e lo premevo contro la bocca e il naso. Il calore dentro quella cantina era così intenso che ci vollero solo pochi minuti perché quel pezzo di stoffa si prosciugasse completamente. Ero come un animale selvaggio, che proteggeva la sua riserva di umidità. Non mi fa piacere ripensarci”.
Il memorandum incalza: “il bombardamento continuava. Cercai di reggermi appoggiandomi al muro e questo mi strappò la pelle dalla mano. Il muro era rovente. L’ultima cosa che ricordo di quella notte è di aver perso l’equilibrio, di essermi aggrappata a delle persone per restare in piedi, ma di essere poi caduta trascinandole a terra con me, me le vidi cadere addosso. Sentii che qualcosa mi si era rotto dentro. Mentre ero stesa lì a terra avevo un solo pensiero: continuare a pensare. Finché sapevo che stavo pensando voleva dire che ero viva, ma a un certo punto persi conoscenza. La cosa che ricordo subito dopo è di aver sentito un freddo terribile. Mi resi conto in quel momento di essere stesa sul terreno, vedevo gli alberi in fiamme. Era giorno. Su alcuni alberi c’erano animali che strillavano. Erano le scimmie dello zoo, che era andato a fuoco. Iniziai a muovere le gambe e le braccia. Faceva molto male, ma riuscivo a muoverle. La sensazione di dolore mi diceva che ero viva. Credo che i miei movimenti furono notati da uno dei soldati dei reparti medici di soccorso. Questi reparti erano stati inviati in ogni zona della città ed erano stati loro ad aprire dall’esterno la porta della cantina. Avevano portato tutti i corpi fuori dall’edificio in fiamme. Ora stavano cercando di capire se qualcuno di noi dava segni di vita. In seguito venni a sapere che da quella cantina erano stati estratti più di centosettanta corpi, ventisette dei quali erano tornati alla vita. Io ero uno di questi. Un miracolo!”
Ma lo strazio non è ancora finito: “quando cercarono di portarci all’ospedale, fuori dalla città in fiamme, fu un’esperienza raccapricciante. A bruciare non erano solo gli edifici e gli alberi, ma lo stesso asfalto delle strade. Per ore e ore il camion cercò di trovare dei percorsi alternativi, prima di riuscire a venir fuori dal caos. Ma prima che i veicoli di soccorso potessero condurre i feriti negli ospedali, alcuni aerei nemici si abbassarono nuovamente verso di noi. Venimmo spinti in fretta e furia fuori dai camion e fatti sdraiare al riparo sotto di essi. Gli aerei ci sparavano addosso con le mitragliatrici, lanciando altre bombe incendiarie”.
Elisabeth fa qui riferimento al terzo ed ultimo attacco che le forze alleate condussero su Dresda. Era da poco passato mezzogiorno del 14 febbraio, quando 311 fortezze volanti B17, scortate da un buon numero di Mustang, fecero la loro ultima sortita, sganciando altre 700 tonnellate di bombe.
La sete di sangue dei ‘liberatori’ era stata soddisfatta.
Gli incendi proseguirono per altri cinque giorni, poi si spensero da soli (e non poteva essere altrimenti, essendo state distrutte le reti idriche ed elettriche). Il centro della città fu chiuso per permettere le operazioni di raccoglimento delle vittime, o meglio di quanto ne restava.
C’erano uomini bruciati, donne incollate all’asfalto fuso dall’enorme calore, bimbi carbonizzati, mucchietti di cenere con poche ossa annerite, masse irriconoscibili e fumanti di vestigia umane.
Elisabeth conclude così il suo memoriale: “il ricordo più vivido nella mia mente è quello delle immagini e delle grida degli esseri umani rimasti intrappolati nell’asfalto fuso e rovente, che bruciavano come torce umane invocando un aiuto che nessuno poteva dargli. In quel momento ero troppo intontita per comprendere fino in fondo l’atrocità di quella scena, ma quando fui ‘al sicuro’ in ospedale, l’impatto di quelle immagini e di tutto il resto mi provocò un completo collasso nervoso. Dovettero legarmi al letto per evitare che mi infliggessi da sola delle gravi ferite. Urlai per ore ed ore dietro una porta chiusa, mentre un’infermiera restava accanto al mio letto. Mi stupisco di come tutto questo sia ancora così vivido nella mia memoria (Elisabeth aveva più di 70 anni quanto scriveva queste righe). È come aprire una diga. Questo orrore è rimasto dentro di me, nei miei sogni, per molti anni. Sono felice di non provare più sentimenti di furia o di rabbia quando ripenso a queste esperienze. Provo solo una gran compassione per il dolore di chiunque, incluso il mio”.
Antonio Schiavone
1: Dresda, 13-14 febbraio 1945
2: La Firenze dell’Elba che accolse i profughi
3: Operazione Gomorra
4: Apocalisse a Dresda
5: La testimonianza di Elisabeth