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Non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio
Non per lanciarsi nello stupido gioco dei ‘se’ e dei ‘ma’ o per ridestare collere antiche e insulsi desideri di vendetta, né tanto meno per fomentare sventati sentimenti indipendentisti; ma solo perché la storia ha sempre qualcosa da insegnare – anche se raramente l’uomo manifesta il proposito di apprendere. Forse è giunto il tempo, dopo 150 anni, di guardare finalmente dritta in faccia la verità circa quelle lontane vicende poiché, come ebbe a scrivere il bulgaro Todorov, «le pagine meno gloriose del nostro passato sarebbero le più istruttive se solo accettassimo di leggerle per intero». E appunto di pagine ingloriose, mai come in questo caso, si tratta.
Il Risorgimento italiano – ben lungi dal costituire la meravigliosa ed «unica epopea» del nostro paese, il «grande romanzo culturale, militare e sociale» italiano – fu in realtà un fitto intreccio di meschinerie, soprusi, vessazioni e violenze. Un verminaio del quale è figlia questa Italia così come la conosciamo oggi, e come si è ininterrottamente manifestata – esclusa qualche breve parentesi – nella storia recente.
È davvero peregrino paragonare l’invio delle truppe piemontesi in Crimea (15.000 uomini, un reggimento di cavalleria e 36 cannoni), alle tante ‘missioni di pace’ in cui i soldati italiani sono invischiati per il mondo? Non mandiamo a morire i nostri figli e fratelli, oggi come allora, a combattere guerre che nulla hanno a che fare con l’Italia? «A servire un falso disegno straniero», come pure scrisse Mazzini? Non è forse la stessa propaganda bellica quella che ieri descriveva lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie come oggi dipinge il nemico di turno? Popoli che vivono nell’arretratezza e nell’oppressione, il cui «grido di dolore» implora «un intervento internazionale». Già allora c’erano le guerre di liberazione, governi estremisti e oscurantisti da abbattere. È veramente insulso far risalire a quegli anni l’insopportabile e subdola doppiezza che accompagna da sempre l’Italia sul palcoscenico mondiale? Le due lettere che Vittorio Emanuele II scrisse a Garibaldi – una pubblica e ufficiale con la quale gli ordinava di fermarsi, l’altra segreta e privata che lo incoraggiava a proseguire verso la Calabria – non esemplificano a meraviglia la nostra connaturata e vile slealtà? Il progetto cavouriano di corrompere i delegati russi o turchi al congresso di Parigi per ottenere un qualche meschino vantaggio non mostra la stessa bassezza d’animo e d’intenti degli attuali governanti?
L’immane debito pubblico che ci ritroviamo non ebbe forse origine in quegli anni? Nel suo libro “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, il fu economista Giacomo Savarese ci informa che il debito sabaudo – divenuto poi italiano – aveva toccato la cifra di oltre un miliardo di lire, ben maggiore della ricchezza complessiva di tutti gli Stati che andarono a formare l’Italia unita.
Tanti altri sarebbero i paragoni con l’attualità, a partire dal disprezzo manifestato nei confronti delle fasce deboli della popolazione; l’elevata imposizione fiscale (cittadini come vacche da mungere); i miliardari di stato (Cavour, maggiore azionista della “Società Anonima Molini Anglo-Americani” di Collegno, nel 1853 col raccolto scarso e la fame che infuriava si guardò bene dal vietare l’esportazione dei grani – come fecero invece i principati ‘reazionari’ – realizzando forti profitti dalle esportazioni del prodotto rincarato); il voto-farsa indetto nei territori appena conquistati che sancì l’annessione ai Savoia (i giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia, come oggi per le votazioni in Afghanistan ed Iraq); le ‘donnine’, i nani e le ballerine che affollavano la corte savoiarda come oggi seggono in Parlamento.
Un capitolo a parte meriterebbe poi la grande repressione successiva all’Unità: un milione di morti, 54 paesi rasi al suolo, fucilazioni sommarie, arresti e condanne senza processo, spedizioni punitive, assassinii disonorevoli di uomini donne e bambini. Come scrive Blondet, «dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così». La qual cosa «in fondo può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio. Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anzichè essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale, viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di “integralismo cattolico”, “revisionismo” vietato, reazione; e censurato dai media. La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia».
Celebrazioni che – invece di un futile (auto)incensamento di massoni, mariuoli, puttanieri e sfaccendati (oltre che uno sperpero di denaro pubblico) – dovrebbero costituire l’occasione di sanare la ferita lasciata marcire sotto la spessa coltre di menzogne che da tempo immemore ci impedisce di reggerci nel mondo con dignità.
Antonio Schiavone