Non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio

Pubblicato da il 12 dicembre 2010
Italia

Viva l’Italia

A quasi 150 anni di distanza, sarebbe forse ora di iniziare a discutere degli avvenimenti che portarono alla nascita del Regno d’Italia, mettendo da parte una buona volta la solita nauseante retorica.

Non per lanciarsi nello stupido gioco dei ‘se’ e dei ‘ma’ o per ridestare collere antiche e insulsi desideri di vendetta, né tanto meno per fomentare sventati sentimenti indipendentisti; ma solo perché la storia ha sempre qualcosa da insegnare – anche se raramente l’uomo manifesta il proposito di apprendere. Forse è giunto il tempo, dopo 150 anni, di guardare finalmente dritta in faccia la verità circa quelle lontane vicende poiché, come ebbe a scrivere il bulgaro Todorov, «le pagine meno gloriose del nostro passato sarebbero le più istruttive se solo accettassimo di leggerle per intero». E appunto di pagine ingloriose, mai come in questo caso, si tratta.

Il Risorgimento italiano – ben lungi dal costituire la meravigliosa ed «unica epopea» del nostro paese, il «grande romanzo culturale, militare e sociale» italiano – fu in realtà un fitto intreccio di meschinerie, soprusi, vessazioni e violenze. Un verminaio del quale è figlia questa Italia così come la conosciamo oggi, e come si è ininterrottamente manifestata – esclusa qualche breve parentesi – nella storia recente.

È davvero peregrino paragonare l’invio delle truppe piemontesi in Crimea (15.000 uomini, un reggimento di cavalleria e 36 cannoni), alle tante ‘missioni di pace’ in cui i soldati italiani sono invischiati per il mondo? Non mandiamo a morire i nostri figli e fratelli, oggi come allora, a combattere guerre che nulla hanno a che fare con l’Italia? «A servire un falso disegno straniero», come pure scrisse Mazzini? Non è forse la stessa propaganda bellica quella che ieri descriveva lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie come oggi dipinge il nemico di turno? Popoli che vivono nell’arretratezza e nell’oppressione, il cui «grido di dolore» implora «un intervento internazionale». Già allora c’erano le guerre di liberazione, governi estremisti e oscurantisti da abbattere. È veramente insulso far risalire a quegli anni l’insopportabile e subdola doppiezza che accompagna da sempre l’Italia sul palcoscenico mondiale? Le due lettere che Vittorio Emanuele II scrisse a Garibaldi – una pubblica e ufficiale con la quale gli ordinava di fermarsi, l’altra segreta e privata che lo incoraggiava a proseguire verso la Calabria – non esemplificano a meraviglia la nostra connaturata e vile slealtà? Il progetto cavouriano di corrompere i delegati russi o turchi al congresso di Parigi per ottenere un qualche meschino vantaggio non mostra la stessa bassezza d’animo e d’intenti degli attuali governanti?

L’immane debito pubblico che ci ritroviamo non ebbe forse origine in quegli anni? Nel suo libro “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, il fu economista Giacomo Savarese ci informa che il debito sabaudo – divenuto poi italiano – aveva toccato la cifra di oltre un miliardo di lire, ben maggiore della ricchezza complessiva di tutti gli Stati che andarono a formare l’Italia unita.

Tanti altri sarebbero i paragoni con l’attualità, a partire dal disprezzo manifestato nei confronti delle fasce deboli della popolazione; l’elevata imposizione fiscale (cittadini come vacche da mungere); i miliardari di stato (Cavour, maggiore azionista della “Società Anonima Molini Anglo-Americani” di Collegno, nel 1853 col raccolto scarso e la fame che infuriava si guardò bene dal vietare l’esportazione dei grani – come fecero invece i principati ‘reazionari’ – realizzando forti profitti dalle esportazioni del prodotto rincarato); il voto-farsa indetto nei territori appena conquistati che sancì l’annessione ai Savoia (i giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia, come oggi per le votazioni in Afghanistan ed Iraq); le ‘donnine’, i nani e le ballerine che affollavano la corte savoiarda come oggi seggono in Parlamento.

Un capitolo a parte meriterebbe poi la grande repressione successiva all’Unità: un milione di morti, 54 paesi rasi al suolo, fucilazioni sommarie, arresti e condanne senza processo, spedizioni punitive, assassinii disonorevoli di uomini donne e bambini. Come scrive Blondet, «dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così». La qual cosa «in fondo può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio. Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anzichè essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale, viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di “integralismo cattolico”, “revisionismo” vietato, reazione; e censurato dai media. La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia».

Celebrazioni che – invece di un futile (auto)incensamento di massoni, mariuoli, puttanieri e sfaccendati (oltre che uno sperpero di denaro pubblico) – dovrebbero costituire l’occasione di sanare la ferita lasciata marcire sotto la spessa coltre di menzogne che da tempo immemore ci impedisce di reggerci nel mondo con dignità.

Antonio Schiavone

Centro Servizi Acerra