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Abolire le regioni

Sono sinceramente addolorato (non è vero) di rovinare il clima tanto gioioso e festoso che nelle giornate di domenica e lunedì ha accompagnato il cittadino nella cabina elettorale a fare un segno sul suo segno (per dirla con Gaber), ma quale migliore occasione per sfidare il tabù della necessità di continuare a mantenere una istituzione, quella regionale, che ha arrecato solo danni?
Sarò forse male informato (lo spero), ma tra tutte le organizzazioni politiche del belpaese l’unica a proporre esplicitamente l’abolizione delle Regioni è Forza Nuova, di Roberto Fiore. Che infatti non conta nulla, dal basso del suo zero-virgola-qualche-cosa percento. Le altre – le più coraggiose almeno – blaterano di un non meglio precisato impegno ad abolire le italiche Provincie, senza ovviamente averne davvero l’intenzione. Per il semplice motivo che il prolificare mostruoso dei poteri locali – meno visibili – fa comodo ai partiti: tanti minuscoli centri di clientele che non danno nell’occhio della pubblica opinione e che permettono infinite occasioni di saccheggio del denaro pubblico (in realtà proprietà privata di chi lo amministra).
Si vocifera che i 3/4 (il 75%) delle spese effettuate dalle Provincie servano al mantenimento delle stesse: puro assistenzialismo tipicamente italiano, che dilapida ogni anno circa 80 miliardi di euro per retribuire i politici trombati – ed i propri assistiti – che si accomodano sulle poltrone provinciali nell’attesa di tornare a fare il bene del paese.
Sia chiaro, questo vale per tutti i settori del (dis)servizio pubblico, quindi anche per le Regioni. Che però in più ci ammazzano, in quanto gestiscono il servizio sanitario – che chiamiamo nazionale, ma che in realtà è regionale. Potrei ricordare, già che siamo in Campania, il sistema Lonardo-Mastella, che si racconta tentasse di imporre le nomine dei primari ospedalieri. Oppure potrei citare quanto avveniva in Abruzzo, con Ottaviano Del Turco cucinato a puntino da tale Vincenzo Angelini, proprietario di cliniche private (nate apposta per lucrare sulla Sanità, tramite convenzioni di favore e prestazioni gonfiate). Senza tacere della Lombardia di Roberto Formigoni, che non ha esitato a promuovere – da semplice consulente ad assessore – un certo Giancarlo Abelli nonostante il suo coinvolgimento nel cosiddetto scandalo delle ricette d’oro, una colossale truffa (almeno 60 miliardi) che ha interessato centinaia di medici che stilavano ricette false o per prestazioni gonfiate o inutili. Vogliamo poi parlare di quanto accaduto nella Puglia di Nichi Vendola, dove è stato arrestato l’ex vicepresidente della giunta regionale pugliese Sandro Frisullo, accusato di aver pilotato gli appalti per la fornitura di protesi e di materiale sanitario? E come dimenticare – vado a memoria – gli scandali sanità nel Lazio, nella Liguria, nel Veneto?
Per carità di patria sorvoliamo sulla Calabria e sulla Sicilia, dove per appendicectomia si intende gioco d’azzardo e dove per mancanza di posti letto si muore per emorragia interna.
Mi si obietterà che si tratta di mele marce, di casi isolati. Qualcuno – ridicolo – sosterrà che la Regione (come istituzione politica) non c’entra nulla. Lascio rispondere a Maurizio Blondet, dal quale ho appreso l’idea:
“Non facciamo del moralismo. Una corruzione così totale, non dipende nemmeno più dalla disonestà dei singoli. È il sistema stesso che è stato congegnato per il furto totale del denaro pubblico. La Sanità costituisce il 90% del bilancio delle regioni, e offre infinite occasioni
discrezionali di gestione. Inoltre, è gestita da consigli d’amministrazione dove loschi affaristi con cliniche si mescolano e inciuciano con deputati trombati, amici degli amici da sistemare. Ai più giovani, bisogna ricordare che non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui grandi enti pubblici previdenziali – dall’INPS all’INAIL alle mutue sanitarie, per non parlare dell’IRI – erano enti «tecnici», gestiti da competenti del settore. Ci sono voluti decenni per trasformare questi istituti onesti e neutrali in cosche. La politica non aveva la gestione di questi enti; dava solo le direttive generali. Poi, ha voluto gestirli, ha cambiato le regole, ha inserito sempre più amici suoi nei vertici, nei gradi intermedi, nelle ASL, dappertutto: sindacalisti, ex deputati, parenti e ballerine. I mascalzoni hanno stravolto tutto a loro vantaggio. […] Il rimedio è chiaro. Una riforma che renda il servizio sanitario «nazionale», invece che regionale, per diminuire i centri di malversazione; insomma, ristatalizzarlo, e affidarlo a tecnocrazie competenti, come era una volta, il cui posto e stipendio non dipenda dai politici. Creare paratie stagne fra «la politica» e l’amministrazione che serve alla salute dei cittadini. Istituire ferme incompatibilità fra le cariche «politiche» e quelle gestionali. Tutto ciò esisteva. La democrazia ereditò dal fascismo questo tipo di amministrazione, dove la ruberia era inattuabile, almeno in queste proporzioni. E per qualche anno – non molti – è durato. Ma è tornare a quella onestà che è utopico. La riforma necessaria, la devono fare i «politici», ossia i beneficiari del malcostume”.
Infine conclude: “Il sistema dovrebbe riformare se stesso. Non s’è mai visto nella storia”.
E chi vuol intendere, intenda.
Antonio Schiavone