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I “veri” dieci comandamenti
Chissà se sarà passato almeno per la testa all’autore dell’articolo di non essere certo stato il primo ad accorgersi che i dieci comandamenti, così come da tradizione tramandati dalla Chiesa, non sono di sicuro la riproposizione letterale dei passi della Bibbia che cita.
Ho sempre trovato curioso il fatto che quasi tutti i critici antichi e moderni del cristianesimo non trovino di meglio che riciclare sempre le stesse accuse, ignari che nella stragrande maggioranza dei casi tali accuse si sono materializzate per la prima volta proprio in seno alla cristianità, per bocca di cristiani che, abbandonando il maestoso equilibrio della dottrina cattolica per abbracciare una singola parte della verità fino a tramutare il tutto in una falsità, hanno smesso di essere cristiani.
Per esempio, leggiamo nell’articolo in questione che «Dio vieta di fare immagini, dipinti, statue e quindi ogni sorta di raffigurazioni “di ciò che è lassù in cielo, di ciò che è quaggiù sulla terra e di ciò che è nelle acque sotto la Terra”, ovvero di ogni eventuale immagine sacra e divina». E giù con la consueta filippica contro immagini sacre, statue, fotografie, e in generale contro ogni forma di arte religiosa.
Forse il nostro autore resterebbe sorpreso se avesse la bontà di fare qualche ricerca: scoprirebbe, tanto per dirne una, che tra i primi iconoclasti vanno annoverati, sorpresa, dei “cristiani”. Risale alla fine del 600, infatti, la fondazione della setta dei Pauliciani, sorta in Armenia, ad opera di un gruppo di eretici che scelse questo nome in onore di san Paolo, del quale erano convinti di seguire il vero insegnamento.
I pauliciani rifiutavano l’Antico Testamento e utilizzavano come testi sacri solo parte del Nuovo, in particolare – va da sé – le lettere di san Paolo (rigettavano invece le lettere di san Pietro). E, tra le altre cose, fecero una serrata guerra ad ogni tipo di immagine sacra. Perfino l’imperatore di Bisanzio Leone III Isaurico finì con l’aderire a questa setta, e con una serie di editti cercò di eliminare completamente il culto delle immagini sacre, perfino contro Roma: papa Gregorio III infatti alla fine lo scomunicò.
Ringraziando Dio, è proprio il caso di dirlo, alla fine prevalse il buon senso e l’insegnamento di sempre della Chiesa cattolica: quanti capolavori dell’arte altrimenti sarebbero stati condannati alla distruzione e irrimediabilmente perduti. Nessuno, per fortuna, oggi è dispiaciuto che gli iconoclasti non siano riusciti a demolire tutte le statue in Italia.
Altri paesi, purtroppo, anche in tempi più recenti (penso ad esempio alle distruzioni perpetrate dai terroristi islamici in Iraq) non hanno avuto la stessa fortuna. Per dirla con le parole del giornalista e scrittore Federico Cenci, in Germania ad esempio «dopo Martin Lutero, diversi riformatori protestanti incoraggiarono la demolizione delle immagini religiose». E «nel ‘500 immagini dei santi o della Vergine, vetrate raffiguranti eventi miracolosi o soprannaturali furono rimosse dalle chiese e dalle cappelle cattoliche, e spesso furono distrutte». L’ondata investì diverse nazioni, «un fiume di fanatismo percorse la Svizzera, l’intera Germania, la Francia, i Paesi Bassi e arrivò a Copenaghen» e «con la predicazione dei riformatori calvinisti quali John Knox, foraggiato dalla Corona britannica in chiave anti-cattolica, l’impeto si abbatté perfino sulla Scozia, riducendo in rovine secoli di civiltà».
Tanto che nel 1842 Luigi I, Re di Baviera, dovette constatare: «Dove sorgeva la Riforma, l’arte figurativa tramontava». Emblema di quel periodo di devastazioni fu la Götzentag (Giornata del falso idolo, in tedesco), quando nella città di Ulma, nella Germania meridionale, i falò furono così tanti e alti da intossicare un’aria ancora non inquinata dall’avvento della Rivoluzione industriale.
Tutto questo perché la Chiesa di Cristo, a differenza del protestantesimo con il suo Sola Scriptura, e anche dell’Islam (secondo cui il Corano sarebbe stato dettato direttamente da Allah a Maometto in arabo puro: è dunque perfino obbligatorio per ogni musulmano imparare la lingua araba) non è mai stata una “religione del libro”.
Fin dall’inizio la Chiesa ha fondato il suo insegnamento non sulla parola scritta, ma sulla Tradizione. Gli stessi Vangeli non sono che il frutto dei ricordi di quanti conobbero o furono nella cerchia dei discepoli di quel figlio di un falegname della Galilea che, si sia credenti o no, ha cambiato la storia.
Quei quattro libri non sono il Corano che scende dal cielo o un trattato di teologia (c’è anche quella, certo, ma come conseguenza), no. Sono principalmente dei racconti, quasi dei diari, nati da un’esigenza molto pratica: quella di trasmettere il più fedelmente possibile gli avvenimenti cui avevano assistito. E soprattutto l’avvenimento, la resurrezione di quel nazareno che si era proclamato Figlio di Dio.
Nel catechismo si può chiaramente leggere come «il modo stabilito da Dio per la perpetua tradizione della religione» non sia certo stato la “dettatura” di un manuale di istruzioni, bensì «la successiva, continua comunicazione degli uomini fra loro; sicché la verità insegnata dai maggiori si trasmettesse nella stessa guisa ai posteri; e ciò dovette durare anche dopo che una parte della divina legge fu, per volere di Dio, in progresso di tempo consegnata in Libri da scrittori ispirati da Lui».
«Ma né tutti, né soli gli Apostoli scrissero, e certamente né gli uni, né gli altri scrissero tutto ciò che avevano visto e sentito».
La prova che fin dall’inizio le prime comunità cristiane avevano già ben chiaro questo principio sta nel fatto che ogniqualvolta sorgessero nella Chiesa primitiva questioni o discussioni sulla dottrina o qualsiasi altro aspetto riguardante la fede, si ricercava il parere di quanti erano stati “a più stretto contatto” con Gesù o con gli apostoli.
Ad ogni modo, per tornare alla questione degli idoli e delle immagini, la vera interpretazione di quei passi dell’Antico Testamento, suffragata dal buon senso e dal contesto storico ebraico dell’epoca, sta semplicemente nel divieto di adorare statue o altre raffigurazioni come fossero divinità: basti pensare al vitello d’oro che nel deserto gli antichi ebrei fabbricarono e presero ad adorare mentre Mosè era sul monte Sinai.
Tutte le religioni antiche, infatti, erano politeiste. Il monoteismo di Israele all’epoca è sorprendente; e proprio perché costituisce un unicum nella storia, questo piccolo gruppo etnico circondato da concezioni religiose così differenti in tutte le popolazioni vicine fu sempre esposto al rischio di abbandonare questa fede così radicalmente diversa nell’unico Dio.
È con questa chiave di lettura che vanno letti quei passi, così come i precedenti – «non avrai altri dei» – e i successivi, nei quali Dio si proclama «un Dio geloso». In questi versetti, Dio non sta forse mettendo in guardia dalle false religioni del tempo, popolate da una miriade di divinità? Non sta forse parlando a quanti si fanno idoli e si inchinano a loro per adorarli invece di dare a Dio l’adorazione che solo a Lui spetta?
E non è una concezione profondamente diversa quella che anima il fedele cattolico di fronte alle immagini sacre? Nessun cattolico adora una statua pensando che essa sia una divinità: anche la vecchietta un po’ demente per l’età è ben conscia che si tratta solo di un pezzo di gesso e che è solo un “modo” per rimandare ad un’altra e più alta realtà non di questo mondo.
Per fare un paragone, è come quando si contemplano o si guardano le fotografie dei propri cari o dei propri defunti. Si è ben consapevoli della distinzione tra quella foto e la persona ivi raffigurata. I sentimenti che essa suscita non sono certo indirizzati a quel semplice pezzo di carta stampata. Sarebbe idolatria questa?
Possiamo citare in proposito anche il Concilio di Nicea: «seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica, le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del signore Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti.
Infatti, quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione [in greco: proskynesin]. Non si tratta, certo, di una vera adorazione [in greco: latreian], riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera [in greco: proskinòn] l’immagine, venera [in greco: proskynèi] la realtà di chi in essa è riprodotto».
Basterebbe infatti leggere il libro dell’Esodo, nel quale Dio diede precise disposizioni su come preparare gli abiti cerimoniali, la tenda del convegno (il primo tempio), le sculture, le decorazioni, i profumi, gli incensi, i materiali preziosi… Dovremmo forse credere che Dio, subito dopo aver dato il comandamento a Mosè, gli avesse chiesto di costruire i cherubini d’oro andando contro lo stesso comandamento?
Per tornare all’articolo, l’invettiva contro «il cupolone del Vaticano» a proposito della schiavitù è semplicemente ridicola. La Chiesa avrebbe tagliato dal decalogo ogni riferimento agli schiavi per non urtare la sensibilità dei «credenti odierni» che altrimenti avrebbero smesso di seguire i suoi insegnamenti. Ma, mi chiedo, già che c’era perché non ha eliminato anche il passo dalla Bibbia? Suvvia, non è questo il modo di falsificare e mentire! Anche il più stupido dei «credenti odierni», ormai, sa leggere.
Se solo l’autore la smettesse con i suoi pregiudizi e si informasse un po’, scoprirebbe che gli elenchi dei comandamenti hanno solo una funzione didattica: sono messi sotto forma di elenco per uno scopo mnemonico e catechistico e certo non sostituiscono la Scrittura, correttamente interpretata alla luce della Tradizione come scritto prima.
Se solo abbandonasse il suo astio verso la Sposa di Cristo e studiasse un po’, magari potrebbe restare colpito e riflettere su come proprio la Chiesa da lui così tanto vilipesa abbia avuto un ruolo fondamentale nell’abolizione della schiavitù nella storia umana. Magari potrebbe rendersi conto del fatto che se anche lui stesso, così come i «credenti odierni», oggigiorno trova così “scandalosa” la schiavitù, ciò è in gran parte merito proprio della Chiesa e del cristianesimo.
Lo storico Francesco Agnoli, nel suo libro “Indagine sul cristianesimo”, racconta come in tutto il mondo antico la schiavitù fosse un dato di fatto. Gli stessi ebrei non furono forse schiavi del faraone nell’antico Egitto? E non credo serva ricordare come fossero presenti schiavi anche nell’antica Grecia (Platone e Aristotele ne parlano nelle loro opere come di una condizione “naturale” per alcuni uomini) e nell’antica Roma. Gli storici stimano che nell’impero romano, allorché il cristianesimo cominciò a diffondersi, si contassero addirittura circa il 30-35% di schiavi nella popolazione totale.
Eppure, proprio quell’ebreo convertitosi alla religione di Cristo dopo averla ferocemente perseguitata predicò anche a Roma un concetto totalmente nuovo: «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù», scrisse san Paolo nella lettera ai Galati. Gli uomini come fratelli in Cristo e uguali di fronte a Dio: è questo il vero fondamento di un cambiamento epocale, che ebbe bisogno di secoli per essere compreso in tutta la sua portata e trovare pieno riscontro nella realtà. Un cambiamento tanto nuovo e inaudito nella storia dell’umanità, che solo faticosamente, un passo dopo l’altro, la Chiesa contribuì a rendere permanente nella storia della civiltà. Fino al punto che oggi quasi ci si stupisce di come per millenni gli uomini abbiano trovato “naturale” l’istituto della schiavitù.
Ma si potrebbe scrivere un intero libro, e invero più di qualcuno lo ha fatto, su tutti gli enormi contributi che il cristianesimo ha portato in tema di sviluppo della civiltà: dalla tutela dell’infanzia all’abolizione della schiavitù; dalla lotta contro la magia e i sacrifici umani alla rivalutazione della figura e del ruolo della donna; dall’impegno a favore dei poveri alla promozione dell’istruzione; dalla fondazione degli ospedali e delle università fino alle più recenti battaglie in favore della vita e della famiglia.
E a ben pensarci si tratta di una vicenda oltre modo singolare, che racconta di come un modesto figlio di falegname, raccogliendo intorno a sé un piccolo gruppo di ebrei in una remota provincia dell’impero romano duemila anni or sono, ha fatto fiorire i valori più profondi, originali ed essenziali della nostra civiltà, spezzando in due la storia umana: prima di Cristo, dopo di Cristo.
Antonio Schiavone
Doveroso da parte mia citare Vittorio Messori, Francesco Agnoli, padre Angelo Bellon, i cui testi sono stati fonte di ispirazione per questo scritto. A loro i meriti se avete trovato istruttivo e interessante questo articolo, a me la colpa di eventuali errori, imprecisioni e ambiguità.