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Democrazia: culto mistico
Cosa hanno in comune “il rozzo sciupafemmine” Berlusconi, “il cacasotto in Tulliani” Fini, “il segretario-ombra” Bersani, “il nuovo che avanza” Vendola, “lo scopritore della lingua italiana” Di Pietro, “l’ubriacone da osteria” Bossi, “lo specialista delle note spese truccate” Napolitano e tutto il bivacco di manipoli che costituiscono la classe digerente italiana? Sono tutti sacerdoti di un culto mistico: la democrazia, che sbandierano come un feticcio da adorare cui sottomettersi.
Quando dall’alto delle loro indennità parlamentari tuonano sulla “partecipazione dei cittadini”, sul “sacro dovere” di andare a votare, sulla “inviolabilità delle istituzioni” non stanno facendo nient’altro che ripetere ossequiosi i dogmi di una vuota funzione religiosa, di un magico rituale al quale si crede per atto di fede. Quello che intendono per democrazia è la Casta, ossia il potere incontrollato dei parassiti ladri di denaro pubblico, e spendono tutto il loro impegno affinché il grande teatrino – nauseante – resti in piedi (“Tu mi sguinzagli i tuoi mastini ed io non ti salvo dai processi, tiè”).
Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: il re è nudo. E a furia di distogliere lo sguardo, prima o poi ci andremo a sbattere contro. Innanzitutto il solo potere di cui dispongono questi signori è essenzialmente quello di derubarci impunemente. Il numero degli «stipendiati della politica» ammonta, secondo i calcoli (per difetto) di Claudio Martelli, a un milione di persone. Sono tutte le sanguisughe che la Casta riesce a mettere ai posti che contano, dalle ASL alle partecipate, alle municipalizzate – nel nostro piccolo pensiamo alla MISIA.
Per il resto (l’economia, la sicurezza, l’istruzione, l’equità sociale) hanno felicemente abdicato ai propri compiti. Pensiamo all’Italia: in una ventina d’anni – tramite le pseudoprivatizzazioni – è stata interamente espropriata del suo patrimonio industriale, completamente smantellato il suo apparato produttivo ed energetico a favore dei grandi capitani – senza capitali – d’impresa. “Lo Stato non deve impicciarsi di economia”: il mantra del globalismo liberista ripetuto in tutte le salse. Maggiordomi del vero potere, i nostri politici si sono guardati bene dal contrastare il grande processo di distruzione degli Stati nazionali tenacemente perseguito dall’oligarchia finanziaria mondiale.
Ricordiamo tutti quali sono state le misure eccezionali per far fronte alla grande crisi che – benché i venerati maestri ci raccontino essere finita – ancora ci stringe il cappio intorno al collo: gli Stati hanno indebitato la propria popolazione (e più di un paio di generazioni a seguire) con il solo intento di salvare le banche e gli speculatori. Hanno sacrificato l’economia reale sull’altare della finanza creativa – ed esentasse tra l’altro. Una politica deresponsabilizzata che ormai non possiede alcuno strumento concreto per esercitare le sue naturali prerogative alla ricerca del cosiddetto “bene comune”. Il v(u)oto come parte integrante del rituale democratico.
E noi – stolti – ancora continuiamo a discutere di case a Montecarlo e puttane a Villa Certosa.
Antonio Schiavone