A scadenze di tempo più o meno regolari, campeggiano sui grandi giornali titoloni dedicati all’evoluzione. Le occasioni per affermare la veridicità di quella che è solo una grande truffa sono le più svariate: il ritrovamento di un fossile, la scoperta di una nuova specie, le dichiarazioni di un qualche scienziato.
L’entusiasmo è dettato dal fatto che, a distanza di più di 150 anni dalla pubblicazione del testo cardine della teoria evoluzionista (“L’origine delle specie”, di Charles Darwin, vide la luce infatti nel 1859), non è stata trovata neppure una sola prova che confermi l’asserto del naturalista inglese. E lo squalo ibrido non fa eccezione: davvero non si capisce in che modo il pescecane in questione dovrebbe avvalorare l’ipotesi che tutti gli organismi derivino da progenitori ancestrali comuni. Nato da squali, di squalo trattasi. Magari riesce a sopravvivere anche in ambienti più freddi di quelli dei suoi genitori, e allora?
La verità è che non esiste alcuno studio o esperimento scientifico nel quale “una specie sia stata vista evolvere in un’altra” – l’affermazione è del batteriologo Alan H. Linton dell’università di Bristol. Basti pensare che tutti gli studi sui batteri, la forma di vita indipendente più semplice (ideale per questo tipo di indagini in quanto le generazioni si succedono ogni 20-30 minuti), hanno fatto fiasco: “in 150 anni di scienza della batteriologia” – continua lo studioso inglese – “non esiste prova che una specie di batteri sia cambiata in un’altra”. Davvero uno strano concetto di scienza quello dei darwinisti, che sostengono che tutte le specie esistenti discendano da progenitori comuni mediante modificazioni e selezioni, ma che non sono in grado di indicare un solo esempio osservato in cui una singola specie si sia originata in questo modo. Mai nel campo delle scienze così tanto si è fondato su così poco.
Anche i reperti fossili, a dispetto dei proclami, gettano più di un’ombra sulla teoria di Darwin. L’esperto del “Museo americano di storia naturale”, Gareth Nelson, nel 1978 scrisse: “l’idea di poter andare a guardare i reperti e sperare di rinvenire empiricamente una sequenza antenato-discendente, sia essa di specie, di generi, di famiglie o altro, è stata, e continua ad essere, una perniciosa illusione”. Anche un darwinista convinto come Henry Gee, divulgatore scientifico della rivista “Nature”, candidamente ammise che “prendere una linea di fossili e pretendere che rappresenti una linea di discendenza non è un’ipotesi scientifica che può essere testata, ma un’asserzione che ha la stessa validità delle favole della buona notte: divertente, forse istruttiva, ma non scientifica”. Basti pensare che il fenomeno più evidente nei ritrovamenti, ossia la comparsa dei principali phyla animali in prossimità dell’inizio del periodo Cambriano, cozza in maniera radicale con la teoria evoluzionista: mentre Darwin ipotizzava il cosiddetto “albero della vita”, i cui rami inferiori sosteneva essere costituiti dagli organismi più semplici procedendo via via fino ad arrivare a forme di vita più complesse, in realtà le testimonianze fossili raccontano tutta un’altra storia.
Accade così che una fantasia senza fondamento alcuno venga spacciata per verità incontestabile, e insegnata nelle nostre scuole fin dalla più tenera infanzia. Tanto più oggi, dopo le scoperte del DNA e le ultime risultanze della biologia molecolare, che tanti grattacapi arrecano agli infaticabili sostenitori del darwinismo.
Ammaestrati a credere in ciò che sedicenti esperti ci propinano, forse – dopo tutto – scimmie lo siamo davvero.
Antonio Schiavone
07 gennaio 2012
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